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Eveline’s Dust – Recensione: The Painkeeper

Anche se rimane un genere per pochi, il progressive in Italia continua a rinnovarsi e a mostrare sul mercato una fioritura di band giovani che, attingendo agli insegnamenti dei padri fondatori del genere e mettendoci del proprio, riescono senza grossi sforzi a produrre dei lavori interessanti. Come succede per gli Eveline’s Dust, band toscana già con un album all’attivo, che destano la giusta attenzione con “The Painkeeper“, un concept album fiabesco ma dai contenuti oscuri; l’argomento principale infatti è la lotta contro un essere misterioso intenzionato a derubare la gente dei loro sogni (inteso anche come sogni ad occhi aperti e fiducia in un futuro migliore). Con un tema simile, era quasi ovvio che i brani dell’album assumessero connotazioni differenti, spesso leggeri e vaporosi come un sogno, altre volte cupi e concreti come la pesantezza che può assumere la realtà.

Gli Eveline’s Dust amano i brani ben suonati e mostrano chiaramente un buon gusto e una buona ricercatezza negli arrangiamenti; i loro pezzi si impreziosiscono in questo modo con l’inserimento di parti di sax e un duetto tra voce maschile e femminile. Dopo una breve introduzione strumentale, gli Eveline’s Dust giocano alcune tra le loro carte migliori con la title track, seguita dalla claustrofobica “NREM” e da “Clouds“, dove la band scioglie le redini e si lascia andare maggiormente, prima con una lunga introduzione strumentale dai toni più pesanti e poi con una strofa acustica su cui si inserisce la voce. Anche la voce è un aspetto interessante della band, perchè il cantante e tastierista Nicola Pedreschi non ha un’estensione vocale particolarmente spettacolare, non adopera acuti alla massima potenza e anzi sembra prediligere le note basse, elemento abbastanza particolare nel progressive, dove la voce diventa spesso uno strumento musicale a sè stante capace di evoluzioni straordinarie. Nonostante questa apparente semplicità, gli Eveline’s Dust azzeccano tutti i brani, alternando ritmi più vicini al progressive inglese anni ’70 ad altre situazioni più moderne e prossime al metal contemporaneo. Ottime a questo proposito la già citata title track e “Joseph“, otto minuti a testa di grande intensità e ricerca melodica. Un lavoro insomma che ha poche pecche e che speriamo possa fare breccia nei cuori, spesso induriti dal tempo, dei fan del progressive di casa nostra.

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