Scarsamente presenti sulle pagine di metallus.it, gli Enuff Z’Nuff hanno in realtà segnato con i loro album il periodo d’oro di un metal che, da glam/hair, ha saputo in qualche e turbolento modo evolversi e resistere alle insidie del tempo ed agli eventi. Già, perché se dal 1984 (anno della formazione a Chicago) al 1993 (anno dell’ultima uscita discografica per una major) le cose per la band di Chip Z’Nuff hanno girato indubbiamente per il verso giusto, dopo questa data il cammino della formazione americana è stato funestato da bancarotte, progetti iniziati e poi abbandonati, continui avvicendamenti e problemi di dipendenza/salute che ne hanno per forza di cose complicato i piani. Sta di fatto che la seconda parte di carriera ci ha comunque restituito una band capace, con sacrificio, di perpetuare se stessa e continuare a guadagnare consensi – soprattutto al di fuori degli Stati Uniti – fino ad approdare alla munifica corte di Frontiers Music nel 2016. Con “Finer Than Sin” la formazione che vede Chip Z’Nuff alla voce e basso, Tory Stoffregen e Tony Fennell alle chitarre e Dan Hill alla batteria conferma con orgoglio la longevità di un nome dalle proverbiali sette vite, che oggi stacca il traguardo dei diciassette dischi prodotti in studio e che dai bei tempi delle hit “New Thing” e “Fly High Michelle” ha saputo trovare una sua via, tra power pop e hard rock, per continuare a suscitare l’interesse di fan ed addetti ai lavori.
Composto da dieci tracce, per un totale che supera abbondantemente i quaranta minuti di esecuzione, “Finer Than Sin” è un album fresco e ruspante, che nonostante gli anni sul groppone porta ancora un invidiabile carico di sana ingenuità (come nell’inutilità energica dell’intro “Soundcheck”). Ruspante, si diceva: ed in effetti le atmosfere non sono più quelle delle sfarzose ospitate da David Letterman e Howard Stern, ma piuttosto quelle di un rockettino all’inglese nato in garage e portato al gran debutto tra i muri del pub all’angolo della strada (“Catastrophe”). Con una dimensione così piccola e raccolta, che affonda le sue origini nel rock timido di fine anni sessanta, questo disco colloca i suoi dolci cori ed i suoi delicati assoli in un luogo lontano e per alcuni magico, che evocare facendo girare un vinile sarebbe stato ancora più bello. “Finer Than Sin” non si pone insomma come un disco del ritorno, o come un lavoro col quale gli Enuff Z’Nuff si propongono di tornare ai fasti di un tempo. Al contrario, la sua ricercata semplicità, avvertibile anche nella poca ricercatezza dei suoni, ne fa un disco dichiaratamente piccolo in tutte le sue componenti, ma non per questo non in grado di regalare qualche momento di gradevole intrattenimento. Brani come “Steal The Light” propongono un punk rallentato ed ondeggiante dai colori molto british (anche e soprattutto in “Trampoline”), talmente autentico e genuino da fare dell’intero disco un prodotto in grado di occupare a pieno titolo quel settore indie grazie alla poesia con la quale abbraccia il suo spudorato anacronismo (“God Save The Queen”). Proprio in virtù di questa scelta, Chip Z’Nuff e compagni non offrono nulla di rabbioso né aspro, preferendo al contrario un approccio al cantato quasi sussurrato (“Lost And Out Of Control”), musicale nel profondo, continuamente corretto nella direzione ed accompagnato con delicatezza ai suoi momenti finali ed ai suoi silenzi.
Ogni canzone sembra spegnersi anziché terminare, ogni parola sembra pronunciata a fatica, ogni ritornello cantato con una convinzione che mai diventa esuberanza, ogni spigolo smussato dagli anni, dalle perdite o forse – chissà – dai rimpianti per quello che sarebbe potuto essere. “Finer Than Sin” ha un solo, grande limite: questo album deve essere contestualizzato, inserito nella cornice della sua lunga e tortuosa storia, per essere compreso e pienamente apprezzato. Il suo sviluppo così gentile e sommesso potrebbe sembrare svogliato… oppure semplicemente figlio legittimo dell’esperienza o della disillusione; le sue canzoni semplici potrebbero sembrare imperdonabilmente banali… oppure funzionali alla ricerca di una dimensione pura, lontana, differente; il suo rapporto con lo scorrere del tempo, infine, potrebbe sembrare divorato dalla delusione e dal risentimento… oppure improntato ad un sentimento di accettazione che ciò che rimane della sua anima rock rende ancora meritevole di essere riconosciuto, e segnalato, su queste pagine. Comunque la si pensi, questo diciassettesimo disco restituisce quattro musicisti in grado di sollevare dubbi, innescare ricordi ed emozionare con le note di una bella canzone (“Hurricane”). Non è forse questo, tutto sommato, il senso della musica?