Affiancato da Marcos Rodrigues alle chitarre, Alessandro Del Vecchio al basso e Fabio Alessandrini alla batteria, un sempre più attivo ed impegnato Johnny Gioeli (Hardline, Axel Rudi Pell, Crush 40) torna con un progetto tutto nuovo, animato dal desiderio di fondere in un’unica band la sua passione per l’hard rock classico con il metal di stampo europeo, rifacendosi ai suoi ascolti di DIO, Rainbow, Black Sabbath, Iron Maiden. Per il talentuoso cantante di Brooklyn, che indubbiamente possiede una delle ugole più riconoscibili ed apprezzate del panorama hard rock attuale, si tratta inoltre di un’uscita speciale che coincide con il centesimo lavoro della sua carriera, una straordinaria avventura che lo ha visto registrare album stimati dal pubblico quanto dalla critica. Che quello degli Enemy Eyes sia un progetto che per Gioeli riveste un’importanza particolare lo si intuisce dalle parole dello stesso artista: nelle sue intenzioni, infatti, “History’s Hand” non deve essere inteso come l’ennesimo progetto lanciato sul mercato per tastarne il polso, ma come un vero e proprio nuovo capitolo nella vita di un uomo alla nobile ricerca di una nuova consapevolezza, di un nuovo stimolo e di una nuova energia da portare – come naturale nel caso di un vero animale da palcoscenico – nella dimensione live che più gli appartiene. Date le premesse per nulla banali, gli Enemy Eyes riescono a generare un’attesa che si discosta da quella generalmente attribuita alle semplici combinazioni di artisti: qui l’aspirazione e l’ambizione sono di natura più personale e consistente, ed hai l’impressione che la responsabilità di queste undici tracce vada ben oltre l’occupazione di cinquanta minuti del nostro tempo.
L’opener “Here We Are” rispetta le attese con un hard rock pimpante e moderno, nel quale trovano spazio cori riusciti e robuste orchestrazioni: sono però la batteria di Alessandrini e gli assoli di chitarra (“The Chase”), in particolare, a donare a questo rock quella venatura heavy che dovrebbe fare di “History’s Hand” qualcosa di diverso. Merita allora una menzione il lavoro accurato svolto dall’argentino Rodrigues alle sei corde: da un musicista che è anche compositore e produttore, che ha suonato per cinque anni nei Rage e che vanta all’attivo una miriade di collaborazioni, non ci si poteva aspettare nulla di meno né di diverso, d’altronde. La prova di Gioeli è, anch’essa, di qualità indiscutibile, animata da quella passione e da quel coinvolgimento capaci di salvare, con la loro genuina e roca intensità, anche gli episodi dotati di minore personalità (“Preying On Your Witness”, “What I Believe”, “The Dream Is Gone”). Non che la combinazione di tutti questi fattori rappresenti nulla di particolarmente nuovo – le coordinate sono infatti quelle eccellenti di un normale Ronnie Atkins o dei Fozzy ispirati di “Do You Wanna Start A War” – ma si sente la volontà di tradurre in note tante delle parole spese per presentare l’album.
Ci sono poi momenti di grande eleganza, come la parte di pianoforte contenuta nella title-track, ed altre nelle quali il lavoro alle tastiere di Del Vecchio assume una rilevanza quasi sinfonica (“What You Say”), che contribuiscono in ugual misura alla costruzione di un disco veramente interessato a proporre qualcosa di laterale e che non perde mai la propria incisività (“Peace And Glory”), il proprio caratterino (“The Miracle In You”) né la voglia di graffiare. Per quello che costituisce un debutto solo in superficie, tanta ed ingombrante è l’esperienza di chi lo ha assemblato, “History’s Hand” rappresenta sicuramente un prodotto ricco e solidissimo, che riesce a coniugare con grande savoir faire la propria derivazione moderna con qualche spunto di natura più classica, alla ricerca di una necessaria e respirabile forma di novità. Se da un lato è onesto sottolineare come su questo disco ci sia davvero poco di vagamente riconducibile al metal europeo così tanto amato da Gioeli, e nientediconiente di quanto vi è contenuto possa aspirare allo status di classico da riascoltare in vinile (doppio, nero e da 180 grammi è quello proposto da Frontiers), la direzione intrapresa dal quartetto è quella buona: gli Enemy Eyes sono un cantiere aperto capace di farci diventare umarell per un giorno, mossi dalle sue note ed affascinati dalla grazia con la quale questa nuova formazione sposta i suoi carichi scintillanti e metallici.