Come la Danimarca ai Campionati Europei del 1992, Grecia e Brasile sono sempre più spesso inaspettati e convincenti outsider quando si parla di hard rock, street e glam: in quello che molte delle loro band sfornano puoi ancora sentire il gusto, respirare la passione e quasi toccare quel movimento ambizioso che in altre – più adagiate – latitudini sembra aver perso di intensità. Ecosostenibile e cosmopolita, Curitiba è un’importante centro culturale, politico ed economico dell’America Latina, nonché grembo dal quale ha avuto origine la storia degli Electric Mob. Fondati nel 2016 e fronteggiati da un concorrente di The Voice Brasil 2016 (quel Renan Zonta già recentemente all’opera sull’album di Magnus Karlsson), i quattro sono l’ennesima scoperta con la quale Frontiers Records intende solleticare i nostalgici delle sonorità di Led Zeppelin, Pearl Jam, Alice in Chains, Foo Fighters, Arctic Monkeys ed Audioslave.
Il “classic-rivisitato”, proprio come le ricette della tradizione rielaborate per tornare alla moda, gode oggi di particolare fortuna, ed è a questo filone che i brasiliani scelgono di accodarsi: tra avvolgenti cori gospel, ritmiche morbide e strutture sufficientemente elastiche per accomodare i virtuosismi di un cantante tecnicamente sopra la media, “Discharge” suona più come un’onesta combinazione di Maneskin, Great White ed Electric Boys che non un omaggio alle realtà citate nel corso dell’introduzione. Il disco beneficia di un’impostazione decisamente più terrena, che lo rende sincero e personale. La sua intenzione appare dunque quella di suonare buon rock, con il giusto piglio e qualche sofferta sfumatura blues, un presupposto sano che permette a questo lavoro di evidenziare una maturità che va oltre quella tipicamente esuberante dell’album di debutto. Gli Electric Mob sanno essere ora misurati e passionali (“Got Me Runnin’”), ora più groovy ed ammiccanti (“Gypsy Touch”, “Higher Than Your Heels”), in ogni caso senza mai perdere quel gosto graffiante che, al di là dell’impeccabile inglese, sa ancora come accompagnarci sull’altra sponda dell’oceano alla ricerca di un coinvolgimento più naturale ed epidermico. La facilità dal sapore live con la quale tutto scorre invita ad una degustazione fluida e senza pause, certamente più sorprendente durante i primi ascolti, quando ancora si apprezza la curiosità verso gli esiti che un approccio così apparentemente rilassato rende possibili. Per quanto non ci si spinga mai verso lidi propriamente sperimentali, rimane comunque la sensazione di un approccio fresco e curioso nei confronti del materiale proposto, al punto che la stessa attitudine del quartetto finisce col prevalere, per spessore ed intensità, sulla bontà intrinseca di ogni composizione.
La scelta di ispirarsi ad alcune sonorità di fine anni settanta si manifesta in una scrittura poco interessata al piglio radiofonico, o a quello commerciale: a differenza di un rock alla Myles Kennedy, più capace di trovare una sintesi moderna, lo stile della band di Curitiba appare meno attuale e più figlio di una bella improvvisazione, allergico alle categorie (“123 Burn”) e soprattutto sempre in controllo (“Your Ghost”), con una personalità ed una sensibilità ben distribuite che – complice la notevole presenza scenica di Zonta (“We Are Wrong”) – non necessitano di clamorosi picchi per manifestarsi. Ne consegue che il disco non offre né hit né episodi di facile presa: per quelli meglio fare una capatina a San Paolo e chiedere dei Desert Dance di “Louder Faster And Sleeze” (Open Secrets, 2014). “Discharge” è un debutto interessante ed ambizioso nel suo non-porsi come tale, focalizzato sul presente e del quale si colgono più facilmente i piccoli dettagli ed il mood generale, piuttosto che l’organizzazione dei singoli brani: anche se nessuno di essi raggiunge quella indipendenza sufficiente ad astrarlo dal resto della scaletta, l’album nella sua interezza offre quarantacinque minuti di intrattenimento spensierato ed orizzontale, confezionato con professionalità e sbattimento, dotato di una bella chimica tra i musicisti ed espressione genuina della necessità di raccontarsi – ad ogni latitudine – combinando sudore e note con uguale generosità.