Edge Of Forever – Recensione: Native Soul

Una line-up rinnovata che è anche una sorta di dream team dell’hard rock italiano (attingendo da Secret Sphere, Labyrinth ed i naturalizzati Hardline), collaborazioni eccellenti lungo una storia ormai ventennale ed il “pedigree lungo un kilometro” (Il Grande Lebowski, 1998) di Alessandro Del Vecchio sono, in un momento in cui raccontiamo tutti e di tutto per liste, i punti che anticipano il nuovo frutto del collaudato e sfaccettato sodalizio tra il talentuoso musicista/produttore e Frontiers Records. Si dice che bisogna ricercare proprio il talento, prima ancora dell’esperienza, e se non vi è dubbio che in Native Soul ne sia stato riversato a profusione: il motivo di interesse sta però nel capire come sia stato effettivamente impiegato nel corso degli undici brani che lo compongono. Al momento di avviare l’ascolto ci sono quindi palpabile attesa, aspettativa alta e benevola curiosità per un prodotto, spoileriamo alla grande, con tutte le carte in regola per giocarsela sul piano internazionale.

Una canzone come Three Rivers, esecuzione interamente vocale posta proprio in apertura di tracklist, fa capire che gli Edge Of Forever posseggono quella maturità e quell’autorevolezza che permette loro di rimescolare le carte, anche solo nell’ambito di un episodio introduttivo, pur mantenendo un forte controllo sul prodotto finale. Il gioco delle analogie viene qui declassato a quello di semplici, timide suggestioni: la classe cristallina dei Winger, il talento tosto dei Firehouse e pure qualche sonorità nativa-americana-ma-italiana dai più sanguigni Bad Bones (Indian Medicine Man, 2012) aiutano certamente a descrivere un disco lineare e diretto, pieno di melodie piacevoli e cori “all’americana” cantabili già al primo ascolto (Promised Land), ma che sceglie un approccio stilisticamente più neutrale che davvero lo smarca – a voi decidere se si tratti di un riconoscimento o invece di una mancanza – dal carattere dei padri fondatori. Meno elegante ed etereo rispetto alle levigature di certe proposte scandinave (penso a Dreamcatcher degli svedesi Last Autumn’s Dream, 2009), Native Soul è un album ottimamente prodotto nel quale coesistono, su una mediana fluida ed armonica, momenti di heavy spensierato (Carry On), costruzioni più pompose (War), complessità non del tutto risolte (Take Your Time) e spaccati più intimi (Shine). Se nessuno di questi episodi costituisce, preso singolarmente, una scoperta da togliere il fiato né una rivelazione per la quale valga la pena scrivere a casa, va riconosciuto agli Edge Of Forever di possedere l’esperienza necessaria a fare di Native Soul un lavoro compatto, dalla sicura resa live e che scorre traccia dopo traccia senza cadute, picchi o incertezze.

In lavori di questo tipo, ai quali dal punto di vista formale non si può rimproverare davvero nulla, pregi e difetti rappresentano due facce della stessa medaglia: l’adesione ad un AOR rafforzato – perché di questo soprattutto si tratta – è totale, gli stilemi sono tutti rispettati (compresi naturalmente alcuni gradevoli intermezzi di tastiera, I Made Myself What I Am), il disco gigioneggia poco e prevalentemente nello scusabile finale (Wash Your Sins Away, Ride With The Wind) e la sua scaletta inoffensiva è un falso problema, che sorge più per l’aspettativa errata del connazionale che non per una effettiva debolezza compositiva. Non è necessario, sembrano dirci gli Edge Of Forever, sorprendere sempre e ad ogni costo, deliziando con l’inatteso: intrattenere può significare dare al pubblico esattamente ciò che esso si aspetta, rassicurandolo, anticipandolo, confermandone le aspettative e rinforzando quel legame di fiducia che lega un marchio al suo prodotto, un’etichetta al suo roster, una band al suo sound. Più di ogni cosa, il quarto album della band lombarda è professionale al punto da elevare la continuità a valore, efficace nella pur meccanica descrizione delle sue cromature (Metropolis, 1927) e felice di adattarsi, anche a costo di piegare leggermente il capo, alle dimensioni sempre più anguste della cornice stilistica nella quale nasce inquadrato.

Etichetta: Frontiers Music

Anno: 2019

Tracklist: 01. Three Rivers 02. Native Soul 03. Promised Land 04. Carry On 05. Take Your Time 06. Dying Sun 07. Shine 08. I Made Myself What I Am 09. War 10. Wash Your Sins Away 11. Ride With The Wind

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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