Parte di un viaggio autobiografico che si preannuncia spalmato da Frontiers Records su due uscite, “26 East” è l’album con il quale Dennis DeYoung, membro fondatore degli Styx, racconta una carriera che lo ha visto abbandonare le umili origini di Chicago per proiettarsi – dalla fine degli anni settanta – nell’Olimpo del rock. Fin dalle prime note, l’impressione è anzitutto quella di trovarsi al cospetto di un grande spettacolo, nel suo senso più teatrale e tradizionale: ci sono spazi e buon passo, cori alla Rocky Horror Picture Show e quell’incidere cadenzato e compassato che associamo al rock felice della sua maturità. Divertire divertendosi sembra essere il filo conduttore dell’opera, che tra dialoghi strumentali tra musicisti, originali inserti neoclassici ed una attitudine generalmente brillante accompagna in un ascolto colorato, pomposo, rotondo. Complice la durata sostanziosa di ciascuna traccia, “26 East” è un insieme di suggestivi affreschi, piuttosto che una successione di orecchiabili ritornelli: sotto l’apparente semplicità del suo richiamo melodico (“You My Love” ed “Unbroken” riescono ad essere belle perfino nella loro banalità), il disco nasconde arrangiamenti complessi, soluzioni inaspettate e quella caratteristica – propria del mercurio intrappolato nei termometri di una volta – che vede i suoi tempi dilatarsi tanto più aumenta la temperatura dell’esecuzione.
“Chicago guys doing what they do best, making music and having a laugh”.
Sfuggendo con fare esperto alla prevedibilità della struttura-canzone, la voce pulita di DeYoung propone qualcosa di diverso e più fluido, talvolta ineffabile (“The Promise Of This Land”), malinconico eppure cantabilissimo (“Damn That Dream”), conferendo all’album un forte senso di presenza, personalità e scopo. Il lungo elenco dei musicisti coinvolti nel progetto, tredici in tutto, è esso stesso indice della eterogeneità dei contributi che fanno di “26 East” un rifugio accogliente e cangiante, un libro pop-up che acquista una straordinaria tridimensionalità quando scoperchiamo i suoi mondi (“Run For The Roses”), salvo poi richiudersi ordinatamente per lasciare spazio alla pagina successiva. Un libro che custodisce sorprese e fantasie, che può essere apprezzato analiticamente o sfogliato con fare distratto, sempre pronto a lasciare un’impressione durevole per la dolcezza coordinata delle sue animazioni e la profondità dei suoi scenari prospettici. Il duetto con Julian Lennon (“To The Good Old Days”), registrato al Mission Sound di Brooklyn, non è solamente un omaggio agli amati Beatles, ma anche un piccolo grande esempio della magia intima ed umana che Dennis sa raccontare, con la nostalgia ammaliante ed un po’ sixties di un sentimento buono, pulito, semplice. Dal punto di vista della produzione, infine, il disco si segnala per una resa che assomiglia a quella di una esecuzione dal vivo: complice una bella sensazione di ariosità tra voci e strumenti, “26 East” suona a tutti gli effetti come un live, però con la cura di un lavoro ben preparato in studio.
Capace di descrivere con graziosi accenti in levare anche argomenti di attualità scottante (“With All Due Respect”), mentre ad alcuni degli episodi più introspettivi è dedicato un trattamento prima elettronico e poi gotico (“A Kingdome Ablaze”), il sesto disco del cantante e tastierista americano è consigliato non solo agli estimatori di Kansas, Pink Floyd, Ken Hensley, Styx e Toto, ma in generale a coloro che riconoscono il valore immutabile di un rock che con intelligenza sceglie di affascinare con l’emozione accorata dei suoi racconti, invece che trascinare con un impeto che non gli appartiene. E’ un quadro espressivo ed in continuo movimento, quello di “26 East”, in cui le gradevoli soluzioni originali sono dettate dalla voglia di divertire più che dalla necessità di differenziarsi, e che fa venire voglia di riascoltarlo perché la sensazione è quella che bisogna prima appartenergli, per poi entrare davvero nel suo mondo.