Recensione: Daybreaker

Non è semplice per una band scrivere un album “on the road” ed ottenere un risultato più che soddisfacente, ma a quanto pare gli inglesi Architects in qualche modo sono riusciti nell’impresa. Ad onor del vero va sottolineato anche il fatto che “Daybreaker” esce ad un anno di distanza dal suo predecessore “The here and Now”, nonostante questo il livello generale delle undici tracce è decisamente elevato.

In parte sembra continuare sul solco tracciato da “Hollow Crown” uscito nel 2009 e che tanta fortuna portò ai nostri, malgrado questa somiglianza bisogna riconoscere che il platter di Brighton è tutt’altro che privo di idee, lontano anni luce da quelli che sono gli schemi classici del Metalcore targato 2012.

Questo quinto album racchiude in sé le due anime che da sempre contraddistinguono lo stile della band, vale a dire quella melodica, sognante ed a tratti eterea di “The Bitter End”, “Truth to be to told”, “Behind the Trone” e l’ultima “Unbeliver”, e quella invece più ruvida, groovy e fashionable delle restanti tracks, decisamente più orientate verso carnosi breakdown e ruvide vocals che attingono a piene mani dalla tradizione HC.

Di sicuro impatto la titletrack “Daybreaker” summa dei princìpi cardine sopraelencati, la quale nonostante il titolo onorifico della quale si fregia, non è comunque l’episodio più riuscito dell’intera produzione, qualifica che spetta infatti ad “Even if you win, you’re still a rat” , brano che vede la partecipazione di Oli Sykes, frontman dei connazionali e più blasonati Bring Me The Horizon ed “Alpha Omega”, il passaggio che rappresenta il più ispirato del quintetto.

Di spunti che fanno di “Daybreaker” un album che merita di essere ascoltato ce ne sono molti, soprattutto grazie alla capacità degli Architects di non fossilizzarsi sulle formule proprie del genere nel quale vengono catalogati, risultando particolarmente gradevoli quando tentano invece di sperimentare ed addentrarsi in atmosfere non propriamente in stile. Senza ombra di dubbio brillante.

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