Danger Zone: “Closer To Heaven” – Intervista a Roberto Priori

Ci sono band che a dispetto dell’avversità e del destino baro hanno saputo tenere duro e ritagliarsi il proprio spazio. I Danger Zone sono arrivati a pochi centimetri dalla realizzazione di un sogno ma qualcosa è andata storto e per troppo tempo la loro musica è rimasta nel cassetto. Non si sono persi d’animo, hanno saputo attendere il momento giusto e oggi si godono il meritato successo che premia e, in parte, ripaga la loro caparbietà, la loro enorme forza di volontà. Un loquace Roberto Priori si presta a questa lunga intervista lunga la quale il chitarrista dei Danger Zone parla a ruota libera del passato e il presente della band. Un presente che si chiama “Closer To Heaven” [qui la nostra recensione] e che porterà la band presto in tour. Una buona occasione per tributare la carriera di questa band.

Allora Roberto, benvenuto su Metallus. Negli ultimi anni il nome dei Danger Zone sta tornando prepotentemente in auge grazie ai vostri recenti dischi. Iniziamo proprio col presentare ai nostri lettori, in particolare le nuove leve, chi sono i Danger Zone.
I Danger Zone nascono nella metà degli anni ’80 con l’uscita di un EP intitolato “Victims Of Time” che per l’epoca ottenne un discreto interesse, successo e praticamente con quella uscita abbiamo iniziato il nostro cammino. Da quel momento in avanti, come accade in certe band, alcuni elementi hanno deciso di affrontare la musica in maniera differente altri sono andati via. Chi è rimasto non solo ha deciso di affrontare questa sfida in maniera più professionale ma anche provare a cambiare il nostro approccio alla musica avvicinandoci a quella che era la scena Hard Rock americana. C’erano band che iniziavano ad influenzarci e dal un iniziale sound legato alla N.W.O.B.H.M. siamo passati a uno stile musicale più melodico di stampo americano. Dopo aver registrato alcuni demo ci è capitata, tramite un managment che ci contattò, la possibilità di registrare un album con produttori americani che ci diede la possibilità di fare questo disco. Quello è stato il momento di svolta della band, in cui ci siamo giocati un po’ tutto. Abbiamo messo tutte le nostre risorse in questo progetto, abbiamo investito tutto noi stessi, lasciato il lavoro, abbiamo fatto il possibile per cercare di inseguire quello che era il nostro sogno.

Poi cosa è successo.  
Diciamo che da lì, non per colpa nostra, ma per motivi legati a scelte di questo managment che avrebbe dovuto occuparsi di noi, una volta finito il disco siamo rimasti in attesa che l’album venisse pubblicato. Ma il tempo passava e non succedeva niente. Dopo due anni di attesa ci siamo ritrovati nel 1992 a partire per gli USA. Ci siamo trasferiti e abbiamo provato a giocare le nostre carte. Solo che siamo arrivati nel periodo del Grunge e dopo solo sei mesi che ci eravamo trasferiti i Club nei quali suonavamo hanno iniziato a chiudere i battenti. Ormai tutta la scena si stava spostando a Seattle e noi ci siamo ritrovati in una città con 5.000 band che non sapevano cosa fare. E noi avevamo finito soldi, speranze, e tutto il resto e così abbiamo deciso di interrompere il nostro cammino. Quindi i Danger Zone sono costretti a fermarsi non perché tra noi della band ci fossero problemi o altro ma semplicemente perché non c’erano più i presupposti per farlo.

E poi arriviamo al 2010 e tornate proprio con “Line Of Fire”, il disco della speranza che tutti aspettavano.  
Esatto. Il disco che noi registrammo e che rimase nel cassetto. Quando ci siamo ritrovati dopo quasi 20 anni, più maturi e con un bagaglio di esperienza maggiore (molti di noi abbiamo continuato a suonare in maniera professionale), a parlare quasi per caso ci siamo detti che sarebbe stato bello poter riprendere lì dove avevamo lasciato e mettere a posto questa cosa di “Line Of Fire”. Avevamo fatto tutti esperienze differenti ma per noi i Danger Zone sono sempre stati qualcosa che andava al di là della musica, capito, erano troppo importanti, come un credo. Non è facile descriverlo. L’esserci andati così vicino, essere stati così convinti di fare questa cosa dal profondo del cuore ci aveva lasciato un senso di incompiuto. E quindi con il benestare del vecchio managment, siamo riusciti a trovare un contratto per questo disco e l’abbiamo subito pubblicato e presentato ai fan. E ci è tornata voglia di suonare.

 Come è stata la risposta del pubblico e della critica a questo ritorno così atteso?
Abbiamo ricevuto dei buoni consensi cosa che per altro per un disco vecchio di vent’anni non è nemmeno così scontato, non ce l’aspettavamo. Per noi era un atto dovuto farlo uscire ma non ci aspettavamo che fosse preso così seriamente dalla gente che l’ha apprezzato. A quel punto noi abbiamo iniziato a buttare giù dei piani per la realizzazione di un nuovo disco per dire ‘Ok, noi siamo tornati non solo per pubblicare un vecchio disco, noi siamo tornati perché vogliamo suonare veramente’. Il nostro obiettivo primario a quel punto è stato dimostrare a tutti che eravamo pronti a fare subito un nuovo disco e a distanza di un anno è uscito “Undying”, che può essere considerato come il vero disco del ritorno, anche se riprende il discorso lì dove l’avevamo lasciato prima.

Come nasce, dunque, “Udying”.
Undying” raccoglie alcune pezzi che non erano entrati in “Line Of Fire”, alcuni pezzi che erano stati scritti dopo, e diversi pezzi scritti dopo la reunion. Tre fasi differenti della nostra storia. Abbiamo fatto un viaggio nel tempo e ricollegato la fine del ’92 con il 2011, al di là di questo piccolo problema di spazio/tempo [Ride]. Siamo tornati per la necessità di suonare la musica che ci piace veramente. Ho detto basta, non voglio più suonare quello che mi dicono di suonare ma solo quello che voglio io.

“Line Of Fire” era la volontà di non lasciare nel cassetto un discorso intrapreso 20 anni prima, “Undying” segna il vostro ritorno, l’ultimo “Closer To Heaven” dove si colloca e come nasce.
Questo disco nasce da una situazione diversa. Rispetto al precedente, che è figlio di tre fasi distinte, “Closer To Heaven” è nato tutto nello stesso periodo, un po’ come tutti i dischi. Abbiamo iniziato a buttare giù qualche idea io e Giga [Giacomo Gigantelli, cantante dei Danger Zone], qualche riff e nel giro di cinque/sei mesi abbiamo messo insieme un certo numero di canzoni che abbiamo provato e a maggio 2015 abbiamo iniziato le registrazioni. È nato di getto, senza troppo pensarci, senza troppi calcoli. Ci trovavamo in una fase molto creativa molto libera e veloce.

Sotto l’aspetto musicale, considerando quanto sia cambiata nel corso di questi trent’anni, ci sono delle variazioni nel vostro approccio alla scrittura e in fase di gusti?
Guarda, i nostri gusti sono sempre quelli, quelli con i quali siamo cresciuti, che ci hanno segnato nella crescita. Il gusto di quell’Hard Rock basato su riff di chitarra potenti ma che allo stesso tempo abbiano una forte melodia. Se volessi riassumere il nostro tipo di suono direi un connubio riff di chitarra e melodia. Il concetto è questo. Da una parte la ricerca del riff chitarristico unito alla melodia, cercare sempre di realizzare una canzone che abbia uno sviluppo melodico. Io sono stato influenzato, come tutti i chitarristi della mia generazione, da Van Halen in maniera abbastanza intensa, con brani in cui la chitarra scolpisce il riff sulla quale inserisci tutto il resto.

Si avverte attraverso i solchi di questo disco un certo positivismo di base, una gioia nel suonare e di divertirsi. Che tematiche avete affrontato? I brani sono legati tra loro oppure no?
No, i brani non sono mai legati gli uni agli altri bensì sono episodi a sé stanti. In alcuni casi raccontiamo noi stessi o avvenimenti che sono accaduti. Prendi il brano di chiusura, “Hard Rock Paradise”, quel brano racconta la nostra esperienza a Los Angeles, anche per chiudere un po’ il cerchio con il discorso intrapreso con “Line Of Fire”. “Undying” forse aveva alcune canzoni dalle tematiche più oscure, invece su questo disco effettivamente ci sono delle canzoni che a livello compositivo hanno un sound più leggero e di conseguenza anche i testi hanno lo stesso mood. Sai, questi due aspetti viaggiano insieme. Da noi nasce prima la canzone con la melodia e poi i testi. Molto spesso trattiamo anche di tematiche che riguardano i giorni nostri. Per esempio “Not That Lonely” parla di internet e della solitudine di certe rapporti che nascono sul web. In questo momento qua, visto che venivamo da momenti non facili della nostra vita, durante la composizione di “Closer To Heaven” avevamo anche la voglia di esorcizzare questa negatività e dare un impulso positivo. Il paradiso di cui parliamo nel titolo non ha niente da vedere con tematiche religiose o celestiali. È più legato a una nostra interpretazione di paradiso inteso come lo star bene con la propria musica, del poter gioire del momento in cui fai musica.

La copertina del disco è legata a qualche brano in particolare?
Non è legata a una canzone in particolare quanto al mood generale del disco. Parlando con il grafico, il bravissimo artista francese Stan Decker che ha lavorato anche con gli Stryper e altri mille gruppi, della tematica del disco gli abbiamo parlato del senso che volevamo dare a questo album. Lui l’ha interpretato rispetto alla nostra sensazione che avevamo in questo momento. È riuscito in chiave grafica a interpretare quello che noi stavamo vivendo.

Se guardi alla scena musicale contemporanea, dominata ancora da band nate negli anni ’80 come voi se non prima, riesci a vedere un ricambio generazionale oppure credi che non sussistano oggi giorno i presupposti per tale riambio.
Io credo che la cosa di cui stai parlando solleva un problema che è dietro tutto questo. Perché ci sono ancora le band degli anni ’80? Questa è la domanda. Vedi, il grosso problema è che oggi, per come sta andando il mercato discografico mondiale, è molto difficile creare i presupposti per fare creare questo ricambio. Il perché lo dobbiamo ricercare in questa bellissima era della democrazia di internet in cui la gente ha smesso di essere interessata alla musica, come le nuove generazioni stanno vivendo la musica. E quindi, senza allargare troppo il discorso, la gente quando comprava i dischi degli Iron Maiden correvo a casa ad ascoltarlo, mettevo tipo un armadio contro la porta, poi staccavo il telefono mettevo le cuffie e lo ascoltavo fino a quando non venivano i Vigili del Fuoco a buttare giù a porta, capito? Il livello di attenzione che c’era prima ti portava ad amare gli artisti veramente e li portavi avanti per generazioni. In questi anni hanno creato il proprio pubblico e adesso sono invincibili. Invece, i nuovi gruppi che nascono oggi si trovano ad affrontare i problemi del social media, del fatto che se non fai determinate cose la gente non ti considera, del fatto che c’è tanta proposta però tu fai fatica a uscire quando ci sono tante proposte perché se anche hai un prodotto buono ti ritrovi a combattere con altre centinaia e centinaia di band. Una volta c’era una preselezione fatta dalle etichette che faceva si che ci fossero meno uscite ma supportate meglio. Oggi non ci sono più gli investimenti di una volta. Non voglio fare polemiche ma è un mercato che soffre e che ha visto saltare delle regole. Lo stesso Gene Simmons l’ha detto in una recente intervista in cui si è dichiarato dispiaciuto per le nuove leve. Quelli che oggi vanno in sala prove per diventare le stelle del futuro avranno molti più problemi di quelli che abbiamo avuto noi.

Com’è lavorare, sia sotto l’aspetto della produzione che della composizione, oggi rispetto a quando hai iniziato negli anni ’80?
Io oltre a lavorare come musicista ho sempre portato avanti parallelamente un discorso come tecnico del suono e ti posso dire che è molto diverso il modo di lavorare. Senza le tecnologie che ci sono oggi tu dovevi affrontare il lavoro sempre in maniera più lunga e dispendiosa, anche sotto il punto di vista economico e di tempo. Era normale prima stare anche sei mesi in studio per registrare un album, il processo di lavorazione era più lento. Quello che è cambiato in brutto è che una volta si trattava di un lavoro di team, il frutto di un’alchimia che si creava tra tutti i componenti, oggi può essere anche un lavoro di poche persone, magari isolate. Noi come band utilizziamo solo la cosa bella, cioè il fatto che spesso basta collegarsi a Skype per provare insieme, essere tutti in una stanza e lavorare insieme. L’importante è mantenere sempre il processo creativo di gruppo.

Dopo la pubblicazione dell’album cosa vi aspetta? Andrete in tour?
Il 14 aprile presenteremo in anteprima il disco a Bologna, a Covo, poi il 24 al Grindhouse di Padova e poi faremo qualche festival. Stiamo cercando di fare il calendario di tutti gli eventi.

Bene Roberto, siamo giunti alla fine di questa lunga e interessante chiacchierata. Vuoi salutare i lettori di Metallus?
Certo. Ringrazio te e tutti i lettori di Metallus. Spero ci possa essere la possibilità di vederli in giro, noi stiamo cercando di organizzare quante più tappe tra l’estate e l’autunno prossimo per portare in tour “Closer To Heaven”.  

Cover medium

Pasquale Gennarelli

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"L'arte per amore dell'arte". La passione che brucia dentro il suo cuore ad animare la vita di questo fumetallaro. Come un moderno Ulisse è curioso e temerario, si muove tra le varie forme di comunicazione e non sfugge al confronto. Scrive di Metal, di Fumetto, di Arte, Cinema e Videogame. Ah, è inutile che la cerchiate, la Kryptonite non ha alcun effetto su di lui.

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