I Crashdiet sono tornati con il loro sesto album in studio e il secondo con il cantante Gabriel Keyes. Un ritorno in grande stile, con un lavoro nettamente superiore a quello precedente, “Rust”, del 2019 e che riporta la band quasi ai fasti del passato. Un passato che non è stato facile per la formazione di Stoccolma, prima con la scomparsa dello storico frontman Dave Lepard nel 2006 e poi con il successivo avvicendarsi di altri cantanti nel corso degli anni. Difficoltà che li hanno comunque temprati e resi ancora più uniti, proprio come una gigantesca macchina robotica dalle istruzioni predeterminate e dove il fallimento non è mai stato una opzione. E da questo nasce “Automaton”, che racchiude undici brani anthemici da cantare a squarciagola, trascinanti e melodici allo stesso tempo, ma dotati di un fiero cipiglio elettrico.
Si parte con la breve e suggestiva title-track di trenta secondi, dove si può sentire la voce dell’indimenticato Dave Lepard che fa da apripista a “Together Whatever”, il nuovo singolo estratto dall’album, che dà letteralmente fuoco alle polveri ed è un ritorno al classico sleazy sound dei Crashdiet, battagliero, bruciante e pieno di groove, mentre l’inizio con i sintetizzatori di “Shine On” ricorda brevemente le sonorità di “Redefined” degli H.E.A.T. Ma è solo un attimo, poiché il brano prende una piega più vigorosa e potente, senza compromessi di alcuna sorta. Il top qualitativo si raggiunge con “No Man’s Land”, dove vengono modellati passaggi melodici con improvvise accelerazioni e cambi di tempo e dove Gabriel Keyes ha modo di sfoggiare una delle sue prestazioni migliori.
E’ poi il momento della bella power ballad “Darker Minds”, ricca di armonie vocali e di intensità, che ci conduce nella seconda parte dell’album, in cui si riprende a picchiare che è un piacere con “Dead Crusade”, uno dei pezzi più potenti di questo platter, dalla ritmica incalzante e precisa che non lascia proprio scampo. Si va avanti con l’anthemica “Powerline”, dove ad affiancare Keys dietro il microfono troviamo un ospite d’eccezione, l’irriverente Michael Starr degli Steel Panther, che fa il suo sporco lavoro alla grande. Dall’approccio più classico e figlio degli anni ottanta è la successiva “Resurrection Of The Damned”, che ricorda in più di una occasione gli Skid Row dei tempi d’oro, soprattutto nel cantato, ma che riesce comunque a mantenere una sua identità personale. Segue la sleazy “We Die Hard”, un vero tuffo al cuore per tutti i nostalgici della prima ora della band e che rappresenta un tributo a tutti i vagabondi e alla vita on the road, sicuramente un altro degli highlight di questo album.
“Shell Shock” si lascia ascoltare piacevolmente senza scossoni particolari, mentre con la tirata ed incisiva “Unbroken” si ritorna a premere il piede sull’acceleratore, fino ad arrivare alla conclusiva “I Can’t Move On (Without You)”, ballata riuscita dai pregevoli accenti acustici e che mette in primo piano la voce del bravo Keys fino alla svolta finale più intensa e potente che in un crescendo continuo colpisce al primo ascolto. I Crashdiet sono tornati e lo hanno fatto in modo egregio e inaspettato, riprendendosi con gran forza il loro posto nell’olimpo dello sleaze rock con un disco che arriva diretto al cuore, potente, sporco e ruvido e non possiamo chiedere di meglio.
