“Hard Rock Live Cleveland 2014” è la prima di una serie di uscite live che, nel corso del 2020, permetteranno di scoprire e riscoprire la carriera di una band apprezzata da pubblico e critica per un concetto di continuità nell’eclettismo che ha cullato fin dagli esordi, risalenti ai primi anni settanta. Registrato a Cleveland nel 2014, il disco – disponibile anche nell’edizione in tre vinili – è un excursus lungo diciassette brani attraverso le molteplici forme del rock che la band ha indagato ed abbracciato negli anni, con un atteggiamento sempre intelligente che le ha fatto guadagnare il titolo di “gruppo heavy metal degli uomini pensanti“. La produzione di questa proposta Frontiers sceglie un approccio melodico che esalta voce ed assoli di chitarra invece che l’energia spesso heavy della ritmica, finendo per portare in primo piano la dimensione più onirica (“Shooting Shark”), seventies, dilatata e pure un po’ dudeista del quintetto. Hard Rock Live Cleveland 2014 è un disco che mette al centro della scena la coesione e l’atmosfera, l’assolo riverberato della chitarra di Donald “Buck Dharma” Roeser ed il basso agile di Kasim Sulton (“The Red And The Black”, “Golden Age Of Leather”), il gospel, il blues e la psichedelia, impegnato a fotografare fedelmente l’evento nel suo scorrere fluido. L’estensione della scaletta permette di apprezzare anche episodi dalla melodia più immediata e spendibile: Burnin’ For You, ME 262 e Hot Rails To Hell sono ora stilose e brillanti, ora vigorose ed upbeat, e per ritrovare la loro dimensione più muscolosa beneficiano, con buona pace dei vicini, di un ascolto a volume sostenuto. E poi ci sono naturalmente la godibilità immediata di Don’t Fear The Reaper (la maggiore hit dei Blue Oyster Cult, che mi ricorda Fuckin’ Up di Neil Young nella versione scazzata degli Almighty, 1993) e l’incedere implacabile di Godzilla, brano dal nomen omen che – benchè in parte snaturato dal potente assolo di batteria e dalle spezie funky dell’arrangiamento – rimane una specie di album nell’album per riconoscibilità, innata gravitas e struttura.
Coerente con il suo flow, Cleveland 2014 non conosce picchi di particolare intensità o coinvolgimento del suo pubblico diversi da quelli posti in corrispondenza dei suoi kilometrici assoli, né per contro cadute di tono che ne indeboliscano la struttura: la sua visione enciclopedica, che attraverso il racconto di una notte ricompone in un quadro armonico una carriera di quasi cinquant’anni, assolve prima di tutto ad una missione bibliografica, offrendo una trascrizione accurata di ogni singolo episodio che colloca questa lunga esperienza d’ascolto in una zona che potremmo definire – mutuando un’espressione audiofila – come lato caldo del neutrale. Il disco può essere maggiormente apprezzato quanto più si è disposti ad assumerlo nel crescendo della sua coesa interezza, calandosi nelle sue atmosfere rarefatte e groovy, attorcigliandosi gommosi attorno ai convoluti giri del suo basso, assecondando le sue incessanti elucubrazioni strumentali (“Buck’s Boogie”) ed infine mantenendo nei suoi confronti un approccio di conveniente affettività felina che ci fa prima avvicinare alla suggestione delle sue melodie, per poi prenderne le distanze quando un assolo diventa troppo lungo o un ritornello, del quale vorremmo ingenuamente innamorarci, si nasconde dietro agli spigoli di trame labirintiche.
La fisicità zeppeliniana di Hard Rock Live Cleveland 2014 si esprime nella lunghezza dei suoi trasporti, nella libertà ribelle delle sue divagazioni (“The Vigil”), nel rosso fuoco dei suoi sconfinati orizzonti americani (“Then Came The Last Days Of May”), e come tale rappresenta un valore tangibile ma difficilmente etichettabile secondo i canoni tradizionali del prodotto da scaffale. Una preventiva conoscenza della band, l’amore per il classic rock e quello per il potere evocativo/nostalgico del concertone (ancor meglio se incastonato nelle trame concentriche del vinile) possono in ogni caso rappresentare un irresistibile invito all’ascolto, capace di trasformare una semplice curiosità in un’esperienza che per la sua natura intensa e crepuscolare (“I Love The Night”), anarchica ed astratta, può generare una relazione di eccezionale longevità, fascino senza tempo e ripetibilità infinita.