Recensione: Black Sabbath

Sono stati in molti coloro che hanno provato a cercare le origini dell’heavy metal così come lo conosciamo oggi fin nella notte dei tempi. Ma è oramai assodato che tutto è cominciato grazie ai 50 minuti scarsi di musica registrati da una band al debutto nei primissimi mesi del 1970. E’proprio ascoltando ‘Black Sabbath’ che intere generazioni di musicisti si sono avvicinate al mondo del rock più duro. Con le otto canzoni contenute in quel disco seminale tutto il movimento metal ha fatto i conti, e continuerà a farli a lungo.

Come per tutte le pietre miliari del genere, la gestazione stessa del primo disco dei Sabbath è circondata da un alone di leggenda: registrato in tre giorni praticamente in presa diretta e costato solo 600 sterline, il vinile uscì nei negozi il 13 febbraio, che nell’anno di grazia 1970 cadeva di venerdì.

‘Black Sabbath’ è stato il primo colpo di coda dell’hard rock dell’epoca, che da allora ha virato verso i lidi di una ricerca musicale più sporca nei suoni, e in cui la cifra blues che caratterizzava il suono dei Led Zeppelin passava in secondo piano, ma solo per venire riscoperta in una nuova veste. I Sabbath però riuscirono ad andare oltre alla lezione hardeggiante dei Deep Purple di ‘In Rock’: Iommi, Osbourne e compagnia supplirono all’evidente deficit tecnico suonando una musica che era diversa nella sostanza (e nei contenuti dei testi, fortemente votati al mondo della magia e dell’occulto) rispetto al rock duro dei tempi che correvano. La grandezza del primo lavoro dei Sabbath – di certo non il migliore del gruppo, ma storicamente il più significativo – sta soprattutto nella sua disarmante attualità: la pioggia e l’atmosfera funerea che costituiscono il prologo della title-track, la semplice e istintiva bellezza di brani come ‘The Wizard’, i sapori gotici ante litteram di ‘Sleeping Village’ e anche certi episodi più orecchiabili come ‘Evil Woman’ suonano molto più fresche e originali delle decine e centinaia di cd paccottiglia che vengono immessi sul mercato oggigiorno.

In tempi in cui le band che hanno qualcosa da dire sono davvero poche, vale la pena riscoprire e studiare meglio certi album per cui vale davvero la pena spendere qualche euro, anche a 35 anni dalla loro pubblicazione. E questo ‘Black Sabbath’ non dovrebbe mancare nella discoteca di nessuno.

Marco Gentili

Tutto inizia di qua. C’erano già stati segnali di un certo tipo verso una certa direzione, Led Zeppelin e Deep Purple avevano già fatto capire che la materia del blues poteva essere plasmata in modi decisamente pesanti e interessanti, ma mai prima di quest’album nessuno si era spinto tanto oltre. Non tanto a livelli di velocità, quanto di pesantezza. Mai nessuno aveva pensato che si potesse aprire un disco con un lungo lamento funebre che esplodesse solo alla fine in un lungo canto di dolore. Mai nessuno aveva creduto possibile ottenere un vasto responso di pubblico, storcendo il blues con distorsioni mai così grosse, con ritmiche così pesanti eppure varie, al limite del jazz, con una voce che, di cantato, aveva solo l’uso del microfono. Eppure è andata così. Chi scrive, purtroppo, non c’era, ma chi ha vissuto l’avvento dell’omonimo dei Black Sabbath sul mercato ne parla in termini rivoluzionari, sin dalla copertina, lugubre e sfuocata.

Ma è la musica, come sempre, la vera padrona. L’opener, ‘The Wizard’, ‘Behind The Wall Of Sleep’, la b-side fondamentale ‘Wicked World’ sono chicche impedibili per chiunque si avvicini al metal, bassorilievi incastonati nella storia del genere. Da qui passa inevitabilmente almeno il 50% della musica pesante che si sente oggi giorno, da qui inizia la storia di una delle band più grandi che la musica, non solo metal, abbia partorito.

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