Frontiers Music ha in questi anni contribuito a ridefinire la missione di una “casa discografica”: partendo dal tradizionale business della pubblicazione/distribuzione di nuovi lavori, l’etichetta con sede a Napoli è infatti diventata – complice l’indiscussa credibilità costruita negli anni – un crocevia di contaminazioni e collaborazioni, molte delle quali promosse attivamente dalla label stessa. In questo modo le opportunità per i musicisti coinvolti nei suoi progetti si sono moltiplicate, creando nuove possibilità espressive (ed occasioni di lavoro) ed offrendo visibilità ad una girandola di talenti in grado di supportarsi l’uno con l’altro. Tra i maggiori beneficiari di questo meccanismo, che per impulso produttivo potremmo avvicinare alle dinamiche autarchiche e circolari di Netflix, vi è la categoria dei cantanti: professionisti di riconosciuto mestiere e/o esperienza che, in alcuni casi, non hanno legato le proprie fortune al sistema socialmente complesso della band, e che Frontiers è in grado di abilitare costruendogli attorno team di professionisti ad hoc. La canadese Rosa Laricchiuta rientra a pieno titolo nella categoria: originaria di Montreal, Rosa è stata cantante, compositrice, performer, concorrente della locale edizione di “The Voice” ed autrice di due album prima di approdare alla corte dell’etichetta italiana. Che non si tratti di una sprovveduta lo testimoniano le sue collaborazioni con Clif Magness (Steve Perry, Avril Lavigne) e Nasson (Chaos Magic, Sinner’s Blood): allo stesso tempo non siamo ancora al cospetto di un nome riconoscibile o che molti di noi potranno immediatamente associare ad esperienze musicali specifiche.
La band italiana assemblata dal publisher partenopeo – al quale in “Laws Of Attraction” arriva a dare una mano anche Jeff Scott Soto – è perfetta per sostenere il talento della cantante originaria del Quebec: capitanati dall’onnipresente Alessandro Del Vecchio (basso, tastiere e produzione), i cinque professionisti nostrani offrono un contributo determinante alla riuscita di un disco di hard rock moderno (“Let Me Be Me”), ritmicamente fresco e affilato come quello di certe derivative realtà tedesche (The New Black, The New Black, 2009), brillantemente sospeso tra i ritornelli sognanti del sinfonico scandinavo e la femminilità graffiante del rock al femminile degli anni Ottanta (Saraya, 1989). I suoni relativamente freddi di “Black Rose Maze”, contaminati al punto giusto da piccoli inserti elettronici e perfettamente coerenti con i toni glaciali del suo artwork, aiutano a fare di questo debutto una proposta con una sua fresca originalità, arginandone le prevedibili derive melodiche (“Free”, “Look At Me Now” e “Call Me Now”) e mettendo una distanza tra il disco e l’ascoltatore che aiuta ad alimentarne l’intrigo, allungandone la longevità. Una struttura così agile ed elastica consente all’album di cambiare frequentemente registro, pur mantenendo una convincente coerenza e leggibilità di fondo: “Maze” ed il suo bell’assolo si avvicinano al metal più tradizionale, il chorus riuscito di “Only You” – probabilmente tra le cose migliori in vetrina – potrebbe mietere qualche vittima quando eseguito dal vivo e le ritmiche incalzanti di fredda, irresistibile semplicità di “Earth Calling” ricordano a tratti quelle degli indimenticati Sentenced di Ever-Frost (“The Funeral Album”, 2005).
Nonostante un lavoro compositivo professionale ma privo per ora di autentici picchi, “Black Rose Maze” approfitta di una produzione quadrata in grado di infondere una personalità determinante alle sue undici tracce, al punto che le sue piccole variazioni sul tema non suonano come semplici tentativi di diversificazione, ma sembrano al contrario contribuire a dare profondità e piccola sfaccettatura, facendo di questo debutto un prodotto di apprezzabile, immediata maturità. Senza strafare, la band aggiunge al puzzle tassello dopo tassello, facendo dell’ascolto dell’intero album un’esperienza piacevolmente superiore alla somma delle sue oneste parti: la memorabilità abita altrove, insomma, ma la capacità di intrattenere per oltre quarantacinque minuti, senza mai prestare il fianco, è un punto a favore e del quale tenere conto nella valutazione finale. Se anche gli entusiasmi suscitati o suscitabili da “Black Rose Maze” non sono tali da fare di questo lavoro un must-stream, il buono che c’è nel disco riesce tuttavia a difenderne gli spazi con i gomiti ed i denti, tracciando un’interessante rotta per un nordico in salsa italo-canadese che la prova di carattere di Laricchiuta completa e legittima in modo sorprendentemente efficace.