Recensione: Doom Crew Inc.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando uno sconosciuto chitarrista diciannovenne venne scelto da Ozzy Osbourne per prendere il posto che fu anche dell’amico e leggenda Randy Rhoads; negli anni l’imberbe Zakk Wilde è cresciuto, diventando uno dei migliori chitarristi sulla piazza e un artista completo. 

L’emanazione principale del buon Zakk sono i Black Label Society, che negli anni ci hanno offerto dei grandissimi album, pur passando da canzoni che potrebbero essere la colonna sonora di inseguimenti nel deserto, con sparatoria a bordo di una Harley rubata, ad altre adatte a più tranquilli coast to coast in cerca di se stessi su una bella macchina anni 70.

Mettendo su il disco ci imbattiamo subito nel singolo “Set You Free” che, malgrado il tappeto sonoro compatto, mantiene un andamento rilassato e ci offre un assolo più riflessivo che potente; di altro genere “Destroy & Conquer”, decisamente vecchio stile, che ci fa sentire odore di whisky scadente e posaceneri non svuotati.

“You Made Me Want to Live” ci riporta su lidi più pacati e in certi momenti quasi eterei. Ancora più rilassata “Forever and a Day”, che ricorda episodi come “Angel of Mercy” in cui se, in alcuni momenti, il pezzo sembra “moscio”, tutto viene salvato da un assolo incredibilmente toccante, per arrivare ad “End of Days”, pezzo da una parte malinconico, dall’altra a suo modo potente. 

“Ruins” è un brano che odora di southern e di orizzonti afosi, mentre, malgrado alcuni stacchi più easy, “Forsaken” ci riporta alla compattezza delle canzoni dei primi album. La seguente “Love Reign Down”, assolo escluso, è suonata con solo il piano e dà la possibilità alla voce di Zakk di risaltare con il suo timbro unico. 

Andando a chiudere l’album ci imbattiamo in “Gospel of Lies”, che pesca a piene mani dai riffoni monolitici che hanno fatto grandi i Black Sabbath . A seguire l’anonima “Shelter Me”, per poi riprendere a mulinare la testa con l’adrenalinica “Gather All my Sins”, che contrasta con la conclusiva e sentitissima “Farewell Ballad”.

Arrivato alla fine dell’album non possiamo fare altro che confermare la grandezza di un artista monumentale, dovendo fare due considerazioni. La prima è che i brani seguono tutti lo stesso schema con un assolo, sempre bellissimo, piazzato esattamente all’inizio della seconda metà, la seconda è che la direzione scelta dal gruppo è decisamente più riflessiva che aggressiva. Dire se siano difetti è una scelta personale. Per quanto mi riguarda questo album mi accompagnerà ancora per molti e molti viaggi in auto anche se, probabilmente, non saranno su una highway.

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