Eccoci qui con il report di una serata davvero esplosiva, quella che ci attende all’Alcatraz di Milano il 16 Marzo; forse dovremmo immaginarlo dal traffico allucinante che circonda la venue o dalla lunghissima coda per entrare al locale, fatto sta che, alla faccia di tutti gli imprevisti e i rallentamenti, uno show dei Black Label Society ci sembra il modo perfetto di iniziare il fine settimana.
Quando riusciamo ad entrare, l’Alacatraz è già pieno di fan e notiamo la più alta concentrazione mai vista di gilet teschiati: i Monolord hanno iniziato ad esibirsi e non siamo in grado di cogliere molto della loro performace a base di uno stoner/doom senza infamia e senza lode.
Il piatto forte, però, si presenta sul palco intorno alle 21, condito di folta barba e capelli lunghissimi: c’è poco da fare, i Black Label Society conservano una carica difficilmente replicabile, amplificata dai volumi altissimi (forse anche troppo) che riempiono la venue.
Lo show inizia con ritmi iper tirati, nemmeno una pausa tra un brano e l’altro, “Genocide Junkies” che tira “Funeral Bell” che tira “Suffering Overdue”, un’esplosione di suoni solidi, meravigliosamente old school, che fanno venir voglia di riguardare Sons Of Anarchy dalla prima alla settima stagione, tutto d’un fiato.
Motorbikers only?. Forse no, e lo si capisce quando tutto il pubblico esplode sull’intro di “Suicide Messiah”, uno dei pochi momenti in cui l’imponente Zakk Wylde lascia spazio alla folla, affidandosi ai suoi fedelissimi fan per aiutarlo (e non che ce ne fosse bisogno) nell’esecuzione.
Ma gli animi sono destinati a scaldarsi, e commuoversi, ancora di più, quando sul palco compare un piano brandizzato Black Label Society e sulle casse si srotolano due teloni con il volto del compianto Dimebag Darrell: è il momento di “In This River”, quello in cui ogni metallaro perde un po’ di integrità, mentre nella testa scorrono immagini di famiglia, amici, esperienze di vita che accomunano tutti. Il potere della musica.
Siamo già abbastanza soddisfatti, lo spettacolo è all’altezza di ogni aspettativa e anche di più, quando succede l’imprevedibile.
Zakk parte con un assolo incredibile al termine di “Fire It Up” e, attenzione, scende in mezzo al pubblico, continuando a suonare attraverso tutto il locale, con mani adoranti che cercano di toccarlo e la security che ha il suo (irruento) da fare nel tentare di dividere le folle. Riuscite ad immaginare un’onda alta 10 metri che si alza dal mare in una tromba d’aria? Ecco, pensate di trovarvici in mezzo e avrete una vaga idea di quello che viviamo quando il buon Zakk ci passa accanto, seguito da una concentrazione di corpi umani difficilmente immaginabile.
Riusciamo miracolosamente a sopravvivere e, mentre lo spettacolo si chiude con “Stillborn”, non ci resta che ringraziare di aver potuto far parte di questo concerto: onore al merito a Zakk Wylde e ai suoi colleghi di palco John DeServio al basso, Dario Lorina alla chitarra e Jeff Fabb alla batteria.
Musica, vera musica senza addobbi o teatralità: la società del Black Label è tutta esecuzione e passione.