Il mondo del business musicale è molto prevedibile. Quando Anton Kabanen lasciò i Battle Beast appena dopo la pubblicazione del loro terzo album “Unholy Savior”, non era difficile immaginare il motivo di questa fuoriuscita: il gruppo stava diventando un successo commerciale talmente ampio e così all’improvviso, che era diventato difficile gestire i rapporti interpersonali con gli altri membri, e il gruppo di cui era fondatore sembrava non essere più suo. Inutile dire che, quando Anton fondò un secondo gruppo, di nome Beast in Black, lo stile intrapreso non poteva che riprendere dove i Battle Beast erano arrivati in “Unholy Savior”: rock/metal semplice, con arrangiamenti pop, tecnica solo negli assoli, tastiere a profusione e tanta, ma tanta voglia di eccedere. E non solo stilisticamente, ma anche parlando di produzione perfetta fino a sembrare fatta con lo stampino di molti dischi pubblicati recentemente dalla Nuclear Blast. Il loro primo album era quindi un trionfo di urla, strilli, cori, melodie semplici e suoni cristallini all’inverosimile, ma c’era poco da esaltarsi, dato che questi elementi rendevano le canzoni esagerate al punto da essere fastidiose e sgradevoli all’orecchio.
La situazione cambia a metà nel secondo album “From Hell With Love”, ma c’era da aspettarsi anche questo. Se i Battle Beast saltarono sul carrozzone pop/rhythm ‘n’ blues nel loro quarto album “Bringer of Pain”, i Beast in Black… fanno qualcosa di simile in alcune canzoni. I due singoli pubblicati in anticipo all’uscita dell’album, “Sweet True Lies” e “Die by the Blade” erano molto indicativi dello stile intrapreso nell’album: entrambi erano brani pop/rock con tanta distorsione, assoli sprecati, linee melodiche (cantate e suonate) urlate all’inverosimile che sarebbero andate in auge ai tempi dei The Cars, quindi 40 o quasi anni fa. Caratteristiche che ritornano in “True Believer” e, in parte, anche in “Heart of Steel”. Il resto delle canzoni, invece, è già più tipico del genere vero e proprio del gruppo: si passa dalla melodica cavalcata alla Judas Priest di “Cry Out for a Hero”, a pezzi più mid-tempo come la title track, “Unlimited Sin” e “This Is War” e bordate più thrash in “Repentless” e “No Surrender” a una soave, ma costruita all’inverosimile (a partire dall’introduzione in chitarra acustica) ballata con flauti, “Oceansdeep”.
Complessivamente, “From Hell with Love” non mostra niente di nuovo sotto il sole: le canzoni sono lì, così come le urla, le tastiere, i riff di chitarra in palm-muting a accordatura standard e la produzione possente. Peccato che l’album si riveli, seppur meno esagerato, sicuramente inferiore al precedente, dato che, ad eccezione della traccia di apertura, l’ispirazione e la creatività latitano in tutti i casi. In poche parole, non ci sono canzoni memorabili abbastanza da dimenticarsi della paccottiglia da teatro di cui l’intero album è rivestito, mentre nel precedente ce n’erano almeno un paio. Probabilmente il prossimo album dei Beast in Black seguirà lo stesso stile di quello del prossimo album dei Battle Beast: se succederà, i due gruppi rischiano di diventare rivali, concentrandosi solo su se stessi, tralasciando la longevità della loro proposta per i metallari di tutto il mondo. Qualcuno dovrebbe dar loro una svegliata, in questo senso, se non è già successo.