“Batushka”: il ritorno dell’ensemble polacca, dimezzata tra veleni e aspettative perenni. Pur con l’intento di dare maggior spazio alla concretezza piuttosto che a un certo tipo di gossip lontano dalla musica suonata, un breve ma doveroso riassunto sarà nell’interesse di tutti: il progetto “Batushka” è particolarmente noto in ambito black metal, meno presso altri lidi musicali. Esplosi nel 2015 come “new sensation” grazie all’innovativo “Litourgiya”, meritatamente votato da testate autorevoli come album dell’anno, i polacchi Batushka (che in slavone antico significa “patriarca”) contribuivano ad arricchire la già fervida e performante scena est europea, da anni erede legittima di quella scandinava, con un’esperienza inedita. Totalmente incentrato su un concept legato al lato oscuro e ritualistico del culto ortodosso, Batushka ha saputo farsi riconoscere immediatamente a partire dall’immagine: copertine ispirate da antiche icone bizantine sinistramente deturpate dal fenomeno medievale dell’iconoclastia, uso dell’alfabeto cirillico e un look a base di atmosfere rituali e paramenti sacri tipici della tradizione religiosa dell’est Europa, dove i cappucci a punta permettevano tra l’altro ai membri della band di celare la loro identità: il tutto, a vantaggio di un alone misterioso di sicura presa. Secondo un’affermazione già entrata nel bagaglio culturale di ogni gossipparo metallico che si rispetti, Krzysztof stesso in un’intervista spiegò di aver avuto l’idea dopo aver letto la dichiarazione di un suo fan secondo cui “gli inni di Dio sono più metal di qualunque musica black metal satanica in giro”: effettivamente anche noi ascoltatori occidentali, assuefatti come siamo fin dagli anni ‘90 a subire massicci influssi “gotici”, veicolati nel gran calderone del metal attraverso musica classica, lirica e contaminazioni dark wave, come potremmo contraddire un’affermazione del genere?
Musicalmente, la band capeggiata da Krzysztof Dabrilovski proponeva un freschissimo e variegato black metal fatto di sfuriate, mid-tempos e sospensioni doomeggianti dove atmosfere e voci baritonali tipiche della liturgia ortodossa, peraltro mai invadenti, costituivano il trademark principale. L’impiego di chitarre a sette e otto corde, altra prerogativa della band, assicurava un ulteriore elemento di originalità nel suono pieno e corposo.
Fu così che grazie al primo album, dato alle stampe dalla Witching Hours Productions di Bartlomiej Krysiuk, che ha prodotto gruppi celebri come Vader, Behemoth e Graveland, un nuovo gruppo iniziò a a officiare la sua liturgia presso i palchi metal più importanti del mondo: tanto che la band fu presto presa di mira da alcune comunità ortodosse, minacciata di morte ed esclusa da festival tenutisi in Russia e Bielorussia. La critica non partiva tanto dai presunti messaggi anticlericali delle copertine, ma dai testi: udite udite, niente di satanico, bensì la ripresa fedele delle omelie sacre che alla chiesa ortodossa parve come un’inaccettabile parodia.
Veniamo ad oggi. Partendo dal fatto che Barlomiej Krysiuk non si è limitato a produrre i Batushka, ma ne è anche il cantante, una serie di incomprensioni scaturite in una faida reciproca le cui motivazioni, invero assai contraddittorie e frammentarie, ben presto hanno tappezzato il web, ha portato il gruppo a spezzarsi in due tronconi.
Da una parte Krzysztof Dabrilovski, il fondatore riconosciuto per legge, lo scorso anno (2019) ha portato avanti il suo concetto musicale con “Panihida (Requiem)”: un album dai buoni propositi, con un trio di tracce molto valide, dopo le quali l’entusiasmo cedeva però il passo alla ripetitività.
Dall’altra parte, nel nome del confronto diretto Bart Krisiuk, ignorando di aver perduto la causa per i copyright del nome della band, accasandosi addirittura presso la Metal Blade rispondeva per le rime con “Hospodi” (“Dio Onnipotente”): ottimo sequel o casomai, un nuovo inizio, dove la sua inconfondibile voce baritonale, avvolta d’atmosfere più che mai epiche, talvolta si apriva anche a refrain piuttosto orecchiabili. Dal punto di vista del giudizio musicale l’operazione di Krisiuk, osteggiata dalla maggior parte dei fan più conservatori e legati al fondatore ebbe esiti infausti sia come accoglienza da parte della critica, sia commerciale, e il cantante e co-fondatore fu praticamente messo alla berlina senza che il CD fosse veramente compreso dai più: un peccato imperdonabile gettare una perla come “Hospodi” alla damnatio memoriae perpetrata dai detrattori e da chi ne restò suggestionato.
Successivamente, se nel perdurare dell’epidemia di Covid-19 dei “veri Batushka” non si è saputo più nulla, l’onnipresente Krisiuk ha provato a ribadire le sue idee con un nuovissimo lavoro: l’EP “Raskol” (ossia, “Scisma”, con allusione alla separazione in casa tra “le due Chiese del Black ortodosso”).
Quasi a volersi far perdonare, in trenta minuti il nuovo lavoro abbandona tutto quanto è stato seminato su “Hospodi” per tornare alle atmosfere più solenni e doom degli esordi. “Raskol”, monolitico sia dal punto di vista sonoro sia nella presentazione delle tracce, susseguendosi senza soluzione di continuità come in passato (con “Irmos”, ossia “Inno I,II,III,IV,V: tracce indicate non per nome ma per numero), è più oscuro e meno trionfale di “Hospodi”: a differenza del precedente lavoro, qui i cori non soverchiano la struttura delle canzoni anzi, si amalgamano col resto in un’atmosfera globalmente più idonea alle sonorità originarie della band, meno nitide e più “underground”. Nel nome delle prime due tracce, le più incisive, il nuovo “Raskol” può anche fare la felicità di chi amò il primo “Litourgiya”. A mio modo di vedere, però, nel tentativo di soddisfare tutti, su questo lavoro pesa “un’aurea mediocritas” non propriamente adeguata al contesissimo monicker, che rende il lavoro tutto sommato indigesto e poco incisivo, fondamentalmente trascurabile.
Ecco perché giudicare se questa entità dimezzata dimostri davvero elementi di genuinità oppure sia un tentativo di copiare gli esordi in chiave minore risulta un’operazione complessa.
Nel frattempo, considerando che si tratta pur sempre di un’EP, quindi di un lavoro interlocutorio, riteniamo di dover considerare “Raskol” con la fiduciosa buona fede di chi si aspetta un full-lenght meno ambivente e più maturo di questa onorevole per quanto marginale “sfumatura di Batushka”.