Axel Rudi Pell – Recensione: Sign Of The Times

La presentazione alla stampa di questo lavoro è affidata anzitutto ai numeri: con più di 1.7 milioni di album venduti in tutto il mondo, 2.6 milioni di riproduzioni in streaming per il predecessore “Knights Call“ (2018) ed una carriera lunga trentun anni che ha valso al virtuoso Axel Rudi Pell il riconoscimento di “leggenda” del metal, si direbbe che la somma degli elementi non possa che portare ad un risultato glorioso. Il problema è che le arti non sono scienze esatte: così come spesso ciò che ascoltiamo è di molto superiore alla somma delle sue parti, può accadere ogni tanto che il valore vada un po’ perso tra le operazioni matematiche, ed il buono che c’è nelle umane cose finisca intrappolato tra i conteggi. Dell’autorevolezza vocale di Johnny Gioeli mi è capitato di scrivere recentemente, mentre suona fresco e sorprendente quel senso di nuova alba presente nella intro “The Black Serenade”, evocativa al punto da alimentare la speranza. Gran parte della classe di questo album è affidata alla tastiera di Ferdy Doernberg, perfetta nelle sue sonorità seventies per dare un senso di rassicurante classicismo. Non mancano poi i pregevoli, non solo per tecnica ma anche per gusto melodico, assoli dello stesso chitarrista tedesco: la sensazione tuttavia, al di là dei contributi personali, rimane quella di un approccio soprattutto equilibrato, rotondo per ritmi e sonorità.

Complice la forte presenza dello stesso Gioeli, le coordinate nelle quali l’intera band pare più a suo agio sono quelle di un orecchiabile AOR americano di metà anni ottanta (“Bad Reputation”), saturo e pastoso, fatto per accompagnare un giro in auto sul Sunset Boulevard oppure le lezioni di ginnastica in VHS, quando al posto di Ring Fit Adventure avevamo la rivoluzionaria aerobica di Lara Saint Paul. Va detto che qui nessun brano possiede la leggerezza o lo scintillio necessario a restituirci la spensieratezza e l’ariosità di quei tempi: “Sign Of The Times” è infatti un disco di inquietudine lenta (“Into The Fire”) che, nonostante sia ingabbiato in suoni californiani, parrebbe aspirare – con interpretazioni sofferte ed un riffing pesante – ad una collocazione più greve. Il risultato di questa tensione non è, purtroppo, in grado di portare i frutti sperati. Questa impostazione, interessante nella sua premessa teorica, finisce infatti col rendere meno convincenti gli episodi nei quali il gruppo prova a consolidarsi in un atteggiamento più serioso. La title-track è probabilmente la vittima più illustre di questo disallineamento: incedere cadenzato e cori sintetici rivelano l’ambizione di elevare il tenore della citazione (diciamo un “Headless Cross”?), ma interpretazione ed arrangiamenti rimangono quelli di sempre ed il grintoso lavoro ritmico finale non serve a nascondere un’evidente mancanza di “coppia”, per utilizzare una metafora automobilistica. Altri episodi, come “The End Of The Line”, “Wings Of The Storm” e l’interminabile balladAs Blind As A Fool Can Be”, durano davvero-troppo in relazione al davvero-poco che offrono: se la presenza di qualche riempitivo può essere scusabile in un album di quasi cinquantacinque minuti, allungare con qualche assolo di chitarra e fill di batteria elementari delle tracce nate palesemente stanche, è una scelta ambigua e discutibile che rivela un problema di intenzioni confuse, ancor prima che di esecuzione.

Sign Of The Times” è un prodotto maturo nella sua sola componente anagrafica e suonato con tutta la competenza che è legittimo attendersi dal blasone dei nomi coinvolti: dove però questo diciottesimo episodio di carriera rivela qualche preoccupante carenza è nella fase della sua poco ispirata progettazione, incapace di dare vita a melodie efficaci ed una potenziale hit che sia una. Le idee in gioco non sono tante e quelle che ci sono (“Living In A Dream” è un ibrido tanto curioso quanto blando, e tristemente sciupato) non sembrano valorizzate come meriterebbero, complice una scelta stilistica anacronistica e conservativa alla quale mancano un filo di coraggio, una punta di coerenza e mordente quanto basterebbe. E così il disco vuole ma non può. E se può, ahinoi, non riesce.

Etichetta: Steamhammer / SPV

Anno: 2020

Tracklist: 01. The Black Serenade (Intro) 02. Gunfire 03. Bad Reputation 04. Sign Of The Times 05. The End Of The Line 06. As Blind As A Fool Can Be 07. Wings Of The Storm 08. Waiting For Your Call 09. Living In A Dream 10. Into The Fire
Sito Web: axel-rudi-pell.de

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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