C’è sempre una certa curiosità nell’apprestarsi ad ascoltare una nuova uscita di rock scandinavo: il nostro cervello ragiona per schemi mentali e, sempre attirato dalla possibilità di risparmiare preziose energie affidandosi ai ricordi, l’accostamento di queste latitudini a canzoni patinate ed eleganti ci coccola, culla e rassicura. Se gli Arctic Rain siano davvero una rock sensation è difficile dirlo, il pedigree è tutto sommato scarno e lo stile certamente derivativo (Whitesnake, Mr Big, Foreigner, Talisman, Def Leppard, TOTO, Treat, Dokken, White Lion e Journey sono i tanti nomi citati dalla band, giusto per darci un’idea), e se nell’idea di “sensazione” infiliamo anche la speranza di un timido sussulto beh, di questo su “The One” non c’è traccia. Pomposo e scorrevole, levigato e brillante, il disco di debutto del quintetto nordico ha però il pregio di copiare con gusto, affidandosi ora a ritmiche incalzanti (“Give Me All Of Your Love” ed ancora più “Breakout”) ed ora alla carica inesauribile del suo singer Tobias Jonsson.
Energia ed eleganza formale sono il marchio di fabbrica di tante melodie svedesi e da questo punto di vista “The One” non sfigura affatto: la presenza dei cori è assicurata in pressochè ogni traccia, i passaggi sui tom della batteria sono plasticosi al punto giusto e gli assoli hanno quel tocco tecnico ed allo stesso tempo lieve (“Friends”) che come la pizza, un complimento o il gelato piace un po’ a tutti. A complemento del quadro vale la pena di citare anche le tastiere rarefatte dell’esperto songwriter Pete Alpenborg (“Night After Night”, “Madeleine”), i cui accompagnamenti si ispirano ad una algebrica correttezza, ma niente più. Tanta è l’attenzione per questi elementi, essi stessi garanti di una certa prevedibilità di suoni e melodie, che il disco pare dimenticarsi della suadente possibilità di non-piacere, di compiere quel mezzo passo falso che lo renderebbe vulnerabile ed apprezzabile nell’azzardo, raccontandoci qualcosa sulla vita terrena di chi lo ha composto e suonato. Al contrario, in “The One” melodic tende a coincidere con prevedibile (un binomio altrove niente affatto scontato), distinguere un brano dall’altro al primo ascolto diventa difficile ed il tutto finisce col suonare come una maxitraccia certamente piacevole in ogni sua parte, ma non al punto da giustificarne un’esecuzione così prolungata. Il confronto con una musicassetta a caso del 1986, che suona ancora attualissima (Europe, The Final Countdown), è allo stesso tempo rivelatore ed impietoso: laddove Joey Tempest e compagni avevano saputo dipingere con la vernice melodica influenze diverse, che davano all’album il gusto colto della sottotraccia, gli Arctic Rain sopperiscono con una scusabile iperattività ad una certa piattezza compositiva, che non richiede un orecchio allenato per rivelare dopo poco tutti i suoi limiti.
Sul fatto che i paesi scandinavi siano una miniera di talenti melodici vi sono pochi dubbi: lo stereotipo è talmente potente da aver ispirato un film attualmente in programmazione su Netflix (“Eurovision Song Contest: la Storia dei Fire Saga”, 2020). Il concetto di una piacevolezza immediata, subito comprensibile ed universalmente percepibile – complice il disinteresse verso linguaggi troppo affettati – è una prerogativa culturale che si esprime in campi diversi, dal design dei mobili alla cinematografia, e che nel rock melodico trova un canale espressivo particolarmente congeniale. Il fatto che una band al debutto sia in grado di produrre un album sostanzialmente corretto in tutte le sue componenti è un ulteriore testimonianza che ragionare per schemi mentali può anche condurre ai risultati attesi, per quanto così facendo si corra il rischio di diventare ogni giorno mentalmente più chiusi, schiavi di convinzioni limitanti e musicalmente bigotti. Non siate foolish come consigliava Steve Jobs, insomma, ed attenetevi: solo così potrete (forse) apprezzare il fascino del già visto, e con esso la ballad smunta che dà il titolo al disco. Se anche “The One” rappresenta una tesi di laurea meritevole di lode, gli Arctic Rain non sembrano ancora pronti a sporcarsi le mani con la cruda realtà di un mercato dove apparire belli e rassicuranti ad oltranza – facendo rimare take me higher con desire – corre il forte rischio di suonare anacronistico, inadatto alle ruvide circostanze e non sufficientemente strutturato per conquistarsi un posto al sole dei nostri volubili ascolti.