Arc Of Life – Recensione: Don’t Look Down

Se Jon Davison, Billy Sherwood e Jay Schellen si possono definire una attuale costola degli Yes, la loro presenza negli Arc Of Life fa di questi ultimi, per le sempreverdi meraviglie della proprietà transitiva, una costola degli Yes. Con una line-up completata da due musicisti di sensibilità progressive e curriculum altrettanto specchiato come Dave Kerzner (Sound Of Contact) e Jimmy Haun (YES, Air Supply, Circa), gli Arc Of Life sono dunque chiamati a dare un seguito all’omonimo debutto del 2021, un disco di respiro epico e grandioso nato con lo scopo di realizzare una musica creativa, tecnicamente sfidante ma allo stesso tempo facile all’orecchio. Sull’onda dei riscontri ottenuti – compreso un eloquente wow ad opera del sottoscritto – “Don’t Look Down” ha quindi il doppio compito di proseguire una conversazione e tenere fede alle aspettative che nomi così importanti sono inevitabilmente portati a generare. Con brani che, nel caso di “Arc Of Life”, possono arrivare a sfiorare i diciotto minuti, basta un’occhiata ai numeri per intuire come dischi come questi, quando realizzati bene, richiedano di affidarsi completamente alle note, come fossero le mani esperte di un dottore. Facciamo di un parrucchiere, va. E con i primi momenti spiazzanti che arrivano a poco più di un minuto dall’inizio degli ascolti, carichi di interruzioni improvvise che regalano vedute su mondi dalle atmosfere rarefatte, è consigliabile entrare subito nell’ottica per non perdersi nemmeno un minuto di questo colorato spettacolo. E’ proprio il richiamo al colore, quasi sottolineato da “Colors Come Alive” e dai forti cromatismi delle copertine di entrambi gli album, uno degli elementi di richiamo di questo prog al tempo stesso complesso e gentile: se le partiture permettono di apprezzare facilmente la naturalezza con la quale il gruppo di Davison e Sherwood affronta anche i passaggi più complicati, è la sensazione di ipnotico fluire che sarà in grado di conquistare un pubblico sorprendentemente vasto. Come avveniva in occasione dell’album pubblicato lo scorso anno, i momenti più introspettivi esistono in funzione di quelli più briosi e movimentati, e viceversa, secondo un’alternanza che bisogna ricercare senza che il tutto appaia eccessivamente studiato e meccanico. Se quindi la natura dell’alchimia è un certo senso prevedibile, perché come in The Prestige il trucco c’è e si vede, il segreto sta tutto nella cura con la quale basso e tastiere, due dei veri protagonisti di “Don’t Look Down”, si rincorrono e corteggiano con la stessa grazia dei fenicotteri nei documentari.

E’ una poesia naturale e misteriosa, immersa in orizzonti sconfinati (“Don’t Look Down”, la canzone), caratterizzata da toni caldi e sonorità accoglienti, nei quali è facile trovare un posto per godersi lo spettacolo. Peccato solamente non poter godere di questo lavoro come le intenzioni dei suoi creatori avrebbero richiesto e meritato: l’ascolto dello streaming compresso al quale i recensori sono costretti è un crimine contro l’umanità che, proprio quando si ascoltano lavori di questa eleganza, si ripresenta in tutta la sua castrante, frustrante ingiustizia. Per fortuna che il tepore del disco contribuisce a rasserenare gli animi, ed abbandonarsi alla voce sognante di Sherwood è un piacere così universale che quasi trascende la misera tecnica a disposizione per goderne. Del suo predecessore scrivevo che si trattava di “un disco le cui differenze suonano sempre uguali, o le cui ripetizioni suonano sempre differenti: un problema insoluto che ha il potere di non lasciarti insoddisfatto, una indecisione ricercata che convince, un prendere o lasciare come quello dei film dei quali tocca accettare il finale aperto che dice e, appunto, non dice”. Ecco, rispetto al lavoro dell’anno scorso, “Don’t Look Down” suona meno sperimentale e pirotecnico, privilegiando un’uniformità stilistica che in un certo senso riappacifica con tutte le sue precedenti ed imprevedibili/esilaranti derive: che si tratti di un effetto novità parzialmente svanito o semplicemente di una scelta più conservativa, questa seconda versione degli Arc Of Life è più interessata a cullare che a stupire (“All Things Considered”), riservando ai tocchi più rock la parte di timide ed impotenti comparse. Se parlare di una maggiore maturità non è appropriato per musicisti che non hanno certo l’onere di dimostrarla, in questi sei brani si avverte comunque un maggiore rigore stilistico che tira le somme, contenendo in un certo senso le spinte e facendo affiorare, in pochi e circoscritti momenti, un leggero senso di prevedibilità (“Let Live”). Per la maggior parte questi cinquanta lussureggianti minuti offrono comunque un intrattenimento di classe ed orientato alla godevole contemplazione dei loro incastri, affascinante per gli intenditori ma altrettanto stimolante per quanti vorranno avvicinarsi – dolcemente, dolcemente – alle morbide sinuosità del prog.

Etichetta: Frontiers Music

Anno: 2022

Tracklist: 01. Real Time World 02. Don’t Look Down 03. All Things Considered 04. Colors Come Alive 05. Let Live 06. Arc Of Life
Sito Web: facebook.com/ArcOfLifeRockBand

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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