Writer For A Day
Eccoci alle opinioni degli “altri”. Il Writer For A Day che ha visto uno dei convenuti al Festival milanese impegnato anche a redigere la propria cronaca, a mettere per iscritto le proprie impressioni e le proprie aspettative di una due giorni che sicuramente verrà ricordata (nel bene e nel male). Di seguito il report di Gabriele Ferrari, solo il primo di una lunga serie: Metallus, infatti, lascerà che siano anche i navigatori a parlare dei concerti perché soltanto così possiamo offrire diverse angolature di questi momenti a volte unici, altri da dimenticare.
Rimanete sintonizzati perché il Writer For A Day diverrà Writer For A Night molto presto.
Sabato: A Day At The Border
Brainwash
Con 15 minuti a disposizione per scaldare il pubblico (e testare i suoni), i milanesi Brainwash non potevano certo lasciare un segno indelebile sulla manifestazione. Nonostante questo, i quattro ce la mettono tutta per coinvolgere i pochi presenti. Suonano grind duro e puro, nel più puro stile Napalm Death periodo “Scum” (e non è casuale la cover di “You suffer” a metà concerto…), per cui riescono a proporre un numero spropositato di brani relativamente al tempo loro concesso; e non lo suonano nemmeno male, non fosse che, appunto, “Scum” è; uscito qualcosa come 15 anni fa. Come dire, i ragazzi sono un po’ in ritardo sui tempi.
Aurora
Noiosi e derivativi, e sinceramente sfugge il motivo del loro inserimento nella bill del Day. Gli Aurora sono danesi, e vorrebbero suonare una sorta di death melodico con stacchi lenti e altri quasi progressive. Peccato che il primo pezzo proposto sia un rip-off degli ultimi Katatonia (con uno stacco finale copiato spudoratamente da “Hallowed be thy name”), col secondo brano vengano in mente i primi Sentenced, al terzo siamo giunti sui territori di “Projector”… a questo aggiungete pure una tecnica decisamente scarsina, una presenza scenica nulla e un cantato che vorrebbe essere aggressivo e risulta, invece, solo sguaiato.
Defaced
Progetto parallelo tirato in piedi da membri di Soilwork (ospite anche il chitarrista ritmico) e Darkane, i Defaced propongono pezzi che si avvicinano di più ai Pantera o ai primi Machine Head che alle band di provenienza. Thrash moderno, canzoni che si reggono su stop’n’go e rallentamenti quasi doom e una certa dose di melodia. Il tutto non sarebbe neanche male, se non fosse che il cantante Henrik Sjiowall è assolutamente inadatto alle esibizioni live, e in generale la band non riesce a coinvolgere e trascinare il pubblico. Le cose più interessanti si sentono quando la band decide di pigiare maggiormente sull’acceleratore o quando aumenta la carica melodica, ma si tratta comunque di episodi isolati. Il Day At The Border deve ancora decollare.
Soilwork
I Soilwork sono il primo gruppo veramente interessante della giornata. Coraggiosi su disco (più con “Natural born chaos” che con l’ultimo “Figure number five”, in verità), dal vivo risultano precisi tecnicamente e parecchio potenti. “Speed” Strid si presenta con una camicia della Ferrari, ma per conquistare il pubblico è decisamente meglio ciò che fa con il microfono: un frontman che fa della varietà vocale il suo punto di forza deve essere in grado di reggere anche live i continui cambi di timbrica, e Bjorn ci riesce alla perfezione. Tagliente con lo screaming e senza sbavature sul pulito, difetta ancora di presenza scenica. Ma in fondo, quando anche il resto della band si dimostra così in forma – anche se problemi di sound penalizzano i chitarristi, che praticamente sentono i loro assoli “mangiati” dal pastone sonoro – non ci si fa troppi problemi e si viene piacevolmente spazzati via dal muro di suono che viene dal palco. Primo highlight di sabato.
Carpathian Forest
Le polemiche sul Reverendo, che avrebbero causato secondo la Live lo spostamento del festival da Monza a Milano, avevano fatto sorridere i black metallers più scafati. “Se sapessero chi suona all’ora di pranzo sì che avrebbero paura”, dicevano con un ghigno feroce sul viso. Lo stesso ghigno che Nattefrost e (colossali) compagni portavano stampato in (pittato) viso durante il soundcheck. Un ultimo tiro alla canna ed è poi tempo di imbracciare le (borchiate) chitarre e salire sul palco, pronti (nelle intenzioni) a devastare Milano. Black metal, si diceva; in realtà , i Carpathian Forest suonano qualcosa che assomiglia di più a un incrocio tra i Kiss e il thrash metal anni ’80; a meno che, ovviamente, non bastino saltuari inserti di blast beat e un uomo che strilla e insulta per suonare black metal. I pezzi propositi sono tutto tranne che dinamici e coinvolgenti, l’insanguinato (finto) Nattefrost non riesce ad andare oltre ad un “tutti nudi” per incitare il pubblico, e la set list viene (misericordiosamente) tagliata dopo una decina di minuti di sforo rispetto al tempo previsto. Per i blacksters accorsi a Milano, uno spettacolo da lacrime, in positivo ovviamente. Per tutti gli altri, cambiate segno all’equazione. Il pezzo che avete appena letto è stracolmo di parentesi: è servito per restare in tema con lo spettacolo dei CF, una (evitabile) parentesi nella giornata.
Nile
Fortunatamente, i ritardi dei CF non obbligano i Nile ad accorciare la setlist, ma li costringono comunque ad un soundcheck impreciso, tanto che lo spettacolo ne risentirà a livello di pulizia sonora. Ma alla fine, conta ben poco di fronte a quanto fatto vedere da questi figli di casa Relapse. Prima di tutto, siamo di fronte a dei mostri di tecnica: Laureano in primis, certo, ma tutti e quattro hanno dato una lezione di come si possa suonare nel contempo brutali e chirurgici, precisi e devastanti. I Nile hanno pescato soprattutto negli ultimi due lavori in studio, tra una “Wind of Horus” da brividi e una massacrante “Black seeds of vengeance”. Anche l’impatto visivo è devastante, Sanders sembra tarantolato, e il fatto di avere tre voci che si alternano assicura dinamismo ai pezzi. Come già detto, i suoni imperfetti fanno perdere ai pezzi quella profondità che hanno se ascoltati su disco, e portano in primo piano la violenza pura e semplice. Hell ain’t a bad place to be, Egypt must have been, a giudic are da come ce lo raccontano i Nile. Primo show realmente superlativo della giornata.
Dark Tranquillity
Chiamati praticamente all’ultimo momento a sostituire i defezionari Spineshank, i Dark Tranquillity sapevano di giocare quasi in casa. In Italia sono amatissimi, e il loro show è uno dei più seguiti della giornata, oltre ad essere il primo che scatena un po’ di macello tra le prime file. Non che tanto entusiasmo sia ingiustificato, anzi. Stanne è in formissima, tanto che quando gli danno in mano un microfono spento (sic) preferisce andare avanti a cantare piuttosto che interrompere il flusso di potenza ed emozioni che accompagnerà tutta la mezzora di esibizione degli svedesi. Anche come presenza sul palco, Stanne si dimostra il primo vero fuoriclasse della giornata (forse l’unico, vista l’assenza di Manson): corre, salta, ride, urla, incita e, in generale, dà la sensazione di avere il pubblico in pugno. La scaletta pesca soprattutto dall’ultimo “Damage done” (applauditissime “Final resistance” e “Monochromatic stains”), con due ovvie puntate nel passato: “Punish my heaven” (a dire la verità non perfetta l’esecuzione dei due chitarristi) e una devastante “Zodijackirl light”. Un solo estratto (purtroppo) da “Haven”, cioè l’opener “The wonders at your feet”, ma lamentarsi dopo uno show del genere sarebbe pura follia. Probabilmente, con il senno di poi, il miglior concerto di sabato.
Ministry
OK, i Ministry sono la storia. Anzi, a dire la verità, sarebbe stato tremendamente divertente se avesse suonato anche Marylin Manson: magari qualcuno di quelli accorsi a Milano per il Reverendo avrebbero fatto due conti confrontando i pezzi di mr. Warner con quelli della band di Jourgensen. Ma il Reverendo non ha suonato, e così ci si trova a dover parlare solo dello show dei Ministry in sé. E non è facile farlo. Innanzitutto, le considerazioni oggettive: 1) il soundcheck prolungato di circa 45 minuti ha portato i suoi frutti, tant’è che il loro è stato il primo show con suoni quasi perfetti, 2) i Ministry sono stati l’unico gruppo a portare un po’ di spettacolo extramusicale (maxischermo che proietta immagini disturbanti, due batterie, microfono a forma di motocicletta…), 3) su disco, i pezzi dei Ministry sono qualcosa di impressionante. A questo punto, però, ogni possibilità di essere oggettivi cade. Chi conosceva tutti i brani a memoria ed è stato sotto il palco, entrando anima e corpo nello spettacolo, ne è uscito felice, rapito, ipnotizzato da quel mostro sonico che risponde al nome di Ministry. Ma si è trattata di una scelta consapevole: chi voleva godere dell’esibizione doveva farlo consapevolmente. Per gli altri (quelli sugli spalti, quelli al di fuori del Mazda, in definitiva quelli meno interessati), era quasi impossibile invece rimanere coinvolti dallo show. La band non comunica con il pubblico, si limita a sparare uno dopo l’altro i pezzi della scaletta, allargandosi saltuariamente in un “thank you” e poco più. A questo aggiungete pure che la musica dei Ministry perde grandemente d’impatto se le chitarre soffocano effetti elettronici e tastiere, come accaduto sabato. In definitiva, uno show molto atteso da alcuni, snobbato da altri, insomma destinato in partenza a dividere, e che non ha tradito le attese. Sotto ogni punto di vista.
Paradise Lost
Se con i Ministry si poteva, in qualche modo, rimanere coinvolti, difficile dire lo stesso per Paradise Lost. Approdati ormai da anni tra le fila dei nostalgici di certi anni ’80, tanto che ormai in pochi ricordano che splendida creatura fossero ai tempi di “Gothic”, il loro show è; fatalmente destinato ad interessare solamente chi li conosce a fondo nella loro nuova evoluzione. I suoni perfetti non possono bastare, se ci si trova di fronte a pezzi sostanzialmente noiosi; e se a questo si aggiunge che Nick Holmes è un perfetto, stereotipatissimo londinese (freddo, distaccato e sarcastico), è facile comprendere come i 45 minuti di esibizione dei Paradise Lost assomiglino più ad un’agonia che ad un divertimento. L’apice negativo è sicuramentela dichiarazione di Holmes “do you like gothic metal? Well we fuckin’ invented it” (evidentemente nessuno lo ha informato che dalla sua stessa nazione provengono anche My Dying Bride e Anathema), ma in generale l’impressione è quella di vedere sul palco un gruppo di professionisti obbligati a fare il proprio lavoro, più che una band.
Children Of Bodom
Il pubblico di fede mansoniana (una percentuale elevatissima) sta già da tempo abbandonando il Mazda Palace quando salgono sul palco i Children Of Bodom di Alexi Laiho, sicuramente una delle band più chiacchierate degli ultimi anni in campo estremo. Inventori di un genere o abili artigiani? Fenomeno da baraccone o band vera? Stando alle ultime esibizioni live, le risposte parrebbero essere rispettivamente b) e a). Stando allo show di questa sera, invece, invertite pure le soluzioni di cui sopra. Finalmente supportati da un sound decente (un anno fa a Wacken sembrava che la distorsione delle chitarre fosse spenta), che comunque ingoia la tastiera per i primi due pezzi, i Bimbi di Bodom sfoderano una prestazione intensa e convincente. Non perfetta, persino Laiho (chitarrista dal talento purissimo, questo nessuno può negarlo) sbava un paio di volte, ma forse anche questo contribuisce paradossalmente a dare l’idea di essere di fronte ad una vera band. Anche i pezzi dell’ultimo, criticatissimo “Hate crew deathroll” suonano aggressivi e potenti, Laiho spazza la platea con le sue urla e delizia gli esteti con assoli semplicemente da brividi. I pezzi più vecchi sono accolti da un ovvio tripudio, tra una “Silent night, Bodom night” e un finale da brivido con “Downfall”. Purtroppo solo due estratti da “Follow the reaper”, ingiustificatamente bistrattato da critica e pubblico al momento della sua uscita per via di una presunta eccessiva pulizia di suono; in questa scelta, Laiho si dimostra furbo e scafato: il pubblico vuole violenza e cattiveria, noi gliela diamo.
Volendo cercare il pelo nell’uovo, la presenza scenica è ancora molto, molto carente, e non basta infarcire ogni frase di “fuck” e “motherfucker” per dimostrarsi veramente cattivi. Ma in fondo, i CoB sono ancora una band giovane, hanno tempo e, pare, voglia di migliorarsi; per questa volta va più che bene così.
Hypocrisy
Arrivati in ritardo spaventoso, tanto che giravano voci su una loro possibile cancellazione dell’ultim’ora, Tagtgren e la sua truppa non hanno certo deluso, nella mezzora a loro disposizione. In sede live, gli svedesi sono qualcosa di devastante, perfetti tecnicamente e potenti come poche band al mondo. In più, hanno dalla loro parte un frontman come Tagtgren, una delle migliori voci estreme al mondo se non LA migliore. Impressionante più per versatilità che per potenza (non che ne difetti, sia chiaro), per come riesce a passare dal growl profondissimo allo screma più acuto nel giro di un attimo; e infatti, uno degli apici dello show è il suo ormai classico “scream for me XXX (sostituire XXX con un luogo qualsiasi) and I will scream for you”, seguito da un urlo che sale di ottava in ottava fino a vette difficilmente raggiungibili da altri cantanti estremi. Non che tutto si riduca a Tagtgren, ovvio: i pezzi sono di livello assoluto, e la scelta di indulgere soprattutto su “Abducted” (” Roswell 47″, “Killing art”, “Buried”) assicura ovazioni ed entusiasmo. Tutto molto bello ma anche abbastanza canonico, insomma; ma da un gruppo chiamato all’ultima ora, con appena 30 minuti a disposizione e appena giunto da un allucinante viaggio aereo, questo è anche più di quello che ci si potesse aspettare.
Domenica: Gods Of Metal
DGM
L’ennesimo colpo di genio dell’organizzazione fa sì che i Madhouse inizino a suonare quando i cancelli erano stati appena aperti, così che metà della gente non possa assistere al loro show. La giornata inizia così con il set dei DGM, che in 20 minuti riescono a convincere gran parte del (poco) pubblico presente. La proposta musicale non sarà il massimo dell’originalità, power-prog abbastanza classico e “all’italiana”, ma la tecnica e anche il feeling dei musicisti non si discute. Titta Tani è un frontman di buon livello, tecnicamente dotato e discretamente comunicativo; Diego Reali è tecnicamente superiore a molti chitarristi che si esibiranno dopo, e in generale l’impressione che la band lascia sui presenti è ottima. Promossi.
Mantra
Chiamati all’ultimo secondo (praticamente una costante della due giorni), i Mantra non hanno assolutamente annoiato, e anzi risultano (nel loro piccolo) una delle sorprese più gradite del Gods of Metal. Hard rock di scuola Zeppelin (cantante evidentemente ispirato a Plant), sanguigno, caldo, passionale e tutti gli aggettivi che si tirano sempre fuori in queste occasioni. Tecnicamente ineccepibili, soprattutto nella figura del singer, dimostrano anche presenza di spirito e padronanza della materia quando un inconveniente tecnico fa saltare la chitarra, e il gruppo è costretto a condurre il pezzo su basso, batteria e voce, senza accusare per questo cedimenti o disorientamento. Encomiabili, e giustamente applauditi dal pubblico.
Thoten
Curiosamente una delle poche band ad avere anche il logo appeso dietro le spalle, i Thoten sono una band brasiliana che suona (anche) grazie al fatto di essere sotto l’ala protettiva di mr. Loureiro. Detta così ci si potrebbe aspettare il classico gruppo-clone degli Angra. Invece, a partire dalla voce e dalle movenze su palco di Luis Syren, ci si trova di fronte ad una band che prende tanto, tantissimo, anche troppo dagli Iron Maiden. Senza un briciolo della loro personalità musicale, ovviamente, e della loro capacità di tenere il palco. Peccato, perché il frontman è dotato comunque di buona presenza scenica (se solo la piantasse di copiare Dickinson in ogni singolo gesto…), e in generale la band non pare impreparata tecnicamente. Il problema è che i pezzi sono anonimi, che la voce va e viene (terribile, in questo senso, la cover finale di ” Painkiller”) e che, in generale, l’impressione è che manchi ancora parecchio prima di giungere alla creazione di qualcosa di interessante. Il pubblico, però, pare apprezzare, e scatena il primo pogo della giornata proprio su “Painkiller”. E alla fine, è il pubblico che decide, no?
Vision Divine
Ed ecco l’ennesima band convocata dalla Live all’ultimo, come ci ricorda Fabio Lione a metà concerto; il tutto, sinceramente, suona molto come una giustificazione alla prova imbarazzante del gruppo. A volte, per fare un concerto gradevole, basta portare sul palco un minimo di carica e di potenza, e si può supplire anche alle carenze più gravi. Che, nel caso dei Vision Divine, si chiamano soprattutto “canzoni noiose e prive di spunti”. Mica poco, ovvio, ma gli stessi Mantra di un’ora e mezza prima non brillavano certo per originalità. Già, peccato che in quel caso avessimo di fronte dei ragazzi umili, che si divertivano a suonare quel che suonavano e ci mettevano l’anima. Qua, invece, l’impressione è piuttosto quella di avere davanti dei professionisti; “pare di vedere mio padre in ufficio”, è stato l’arguto commento di qualcuno del pubblico. Vero: Thorsen, per quanto dotato tecnicamente, si limita all’ordinaria amministrazione, Oleg Smirnoff suona con la scritta ” non ho voglia ma mi tocca” in fronte, la seconda chitarra è sinceramente imbarazzante… e Fabio Lione, poi. Uno dei cantanti italiani più sopravvalutati (dal pubblico) ha offerto l’ennesima prova deprimente. Estensione nulla, controllo sotto zero, carisma anche. Eppure, anche qua vale il discorso fatto per i sopraccitati Thoten: il pubblico incita, urla, gode e si diverte, probabilmente più per partito preso che altro. I misteri del metallo…
Pain Of Salvation
La collocazione nel bill (praticamente all’ora di pranzo) poteva far pensare a questo show degli svedesi come ad uno dei tanti riempitivi in attesa della vera “calata degli Dei”. Il tutto si è invece trasformato (fortunatamente, aggiungiamo) in un evento più unico che raro. Vuoi per la presenza del fan club ufficiale, vuoi per il seguito che comunque la band si è costruita, la mezzora di show è stata tra le più intense (LA più intensa?) della due giorni. Fin dall’ inizio, anche quelli che non li conoscevano hanno potuto constatare come gli svedesi non siano una band qualunque. Il soundcheck effettuato in prima persona è servito a Daniel e compagnia per tastare il polso al pubblico, per farsi quattro risate con quelli delle prime file e per capire che non sarebbe stata una mezzora qualunque. L’apertura (quasi scontata) con ” Used” dimostra subito che i PoS live sono una band potente, precisa, coinvolgente, divertente e chi più ne ha più ne metta. E soprattutto sono una band “prog” nel senso più puro del termine, dove per una volta quella fatidica parolina di quattro lettere non fa rima con “retrò”. “Questo è un giorno dedicato all’heavy metal e dunque vogliamo farvi contenti, ma è noioso sentire solo heavy metal tutto il giorno, così abbiamo scelto un pezzo che contenga un po’ di tutto”: con queste parole (più o meno), Daniel annuncia “Nightmist”, una cascata di emozioni difficilmente descrivibile a parole. E le mosse coraggiose non finiscono qui: suonare di fila “Undertow” (il momento più introspettivo e lacerante dello show) e “Ashes” non è esattamente quello che ci si aspetterebbe da una band che deve fare mezzora in un Gods Of Metal, soprattutto in un’edizione così nostalgica. Eppure i PoS fanno questo, e fanno anche altro: il finale su “Inside” è semplicemente da delirio, Daniel abbandona anche la chitarra per scatenarsi (un po’ alla Mike Patton Faith No More-era) su quella che è, fondamentalmente, il manifesto ideologico della band. Tutto questo per non dilungarsi sulle doti tecniche e sulla bellezza delle composizioni, poiché sarebbe puro esercizio retorico. E tutto questo escludendo ovviamente il lato emozionale dello show, poiché quello non si può certo spiegare a parole. Meglio toccare con mano. In occasione di “Be”, e magari da headliner? Speriamo.
Angra
Rispetto ad un anno fa (show di Wacken), gli Angra hanno subito una strana evoluzione/involuzione. L’involuzione è, prima di tutto, a livello di tenuta sul palco: oggi, Loureiro e Bittencourt hanno offerto una prova imprecisa a tratti e, più in generale, poco ispirata. In secondo luogo, i pezzi nuovi continuano a risultare infinitamente meno efficaci di quelli vecchi, tanto è vero che solo l’accoppiata “Nothing to say”-“Carry on” fa davvero drizzare le antenne; sintomo, questo, che ormai la scelta di questa metà dei vecchi Angra è chiara: suonare il caro, vecchio power metal Helloween-style, con qualche puntata saltuaria (e comunque poco ispirata) nella sinfonia. Messa giù così, sembrerebbe quasi che lo show degli Angra sia stato un disastro; a salvare (e in che modo!) i brasiliani è stato invece Edu Falaschi, in crescita esponenziale rispetto alle pur buone prove degli esordi. Localmente dimostra di poter essere degnissimo successore di Matos (sebbene con un decimo della sua personalità), e di poter cantare anche i pezzi più complicati senza sbavature. Tutto sommato, uno show più che buono, anche se (costante della due giorni, con poche lodevoli eccezioni) fondamentalmente scontato e poco coraggioso. Ma, una volta ancora, alla gente va bene così;…
Saxon
Scambiatisi di palco con i Destruction per via di un loro impegno ad un festival in Germania la sera stessa (!), Biff Byford e soci hanno proposto uno show discreto, perfettamente in linea con lo spirito nostalgico della giornata di domenica. Vent’anni di carriera ripercorsi con i pezzi più famosi che hanno scaldato i cuori di coloro che, con la testa, vivono ancora negli anni ’80. Tecnicamente buoni, con un magnetico Byford a reggere il peso dello spettacolo, hanno fatto felici tutti coloro che, tra i presenti, erano lì per loro. Certo, hanno fatto felici loro e solo loro, perché uno show di 45 minuti incentrato su classici di heavy metal anni ’80 è fatalmente riservato solo agli amanti di certe sonorità;, ed esclude tutti gli altri quasi a priori. Ovviamente non ha senso accusare i Saxon per questo, il pubblico (sempre il pubblico, ovvio) voleva questo, per questo era venuto, ed esattamente questo ha avuto, nulla più e nulla meno. Pretendere altro sarebbe parlare ai muri, e allora accontentiamoci di quel che ci passa il convento.
Motorhead
Scrivere un pezzo per un concerto dei Motorhead è, a prescindere, perfettamente inutile. Hanno superato ormai da tempo immemorabile il periodo in cui li si poteva accusare di staticità sonora e sono ormai un’ istituzione del rock. E poi, via con la sfilza di luoghi comuni: dopo trent’anni suonano ancora con la carica dei novellini, dal vivo spaccano sempre, non puoi che essere soddisfatto di quello che fanno, eccetera eccetera. Che noia, però. Anche perché le possibilità sono tre: 1) si è fan della band, e allora si gode; 2) si va sotto il palco a pogare come forsennati, e allora si gode; 3) si spera di godere di un concerto, e invece si assiste ad una sorta di rito, officiato dai tre sul palco e dal pubblico intero, coinvolgente per chi vi partecipa ma fatalmente monotono per gli altri. Più ancora che per i Saxon (e per Whitesnake tre ore dopo, chiaro) vale il discorso “il pubblico vuole qualcosa, noi diamo loro esattamente quello che si aspettano”. A questo punto, due possibili soluzioni: tutto perfetto, oppure tutto tremendamente prevedibile. A voi la scelta.
Queensryche
Uno scandalo? Una presa in giro? Scegliete voi i termini più adatti. I Motorhead prolungano il soundcheck oltremisura, i Queensryche stessi non velocizzano le operazioni, e del previsto evento (un’ora di concerto con il redivivo Chris De Garmo alla chitarra – peraltro assente) rimangono scampoli, 35 minuti che lasciano l’amaro in bocca a un po’ tutti i presenti. Di una scaletta da urlo, che doveva spaziare da “Rage for order” a “Q2k”, rimane una sorta di sunto di ” Operation:Mindcrime” (“Revolution calling”, “Speak”, “The mission”, “Spreading the disease”, “Eyes of a stranger”) e un estratto da “Hear on the now frontier”, cioè “Saved”. In questo modo, oltre a deludere coloro che erano accorsi, non viene data possibilità di testare Tate sui pezzi cantati in tonalità più bassa (praticamente tutto lo show è; stato cantato in falsetto, peraltro perfetto), e infine si spargono i semi per una serie di defezioni a catena l’anno prossimo. Chissà come andrà a finire…