Inizialmente destinata a svolgersi al chiuso, la prima edizione del festival Acciaio Italiano si sposta in un paese vicino Mantova, si posiziona all’aperto e ne trae una serie di benefici. L’ampia location (senza nulla togliere al circolo Arci Tom, dove si sarebbe inizialmente dovuto svolgere il festival, sia ben chiaro), i prezzi politici di (abbondante) cibo e bevande e soprattutto l’ingresso gratuito, hanno fatto sì che alcune centinaia di persone abbiano affollato una serata interessante, tutta dedicata al metal di casa nostra. L’organizzazione, divisa fra Bologna Rock City e Jolly Roger Records, ha insistito parecchio sul fatto che l’evento fosse ad ingresso gratuito (anche le band non hanno ricevuto alcun compenso e si sono pagate le spese di viaggio), e ha ricevuto in cambio un festival all’insegna della professionalità, della buona organizzazione e soprattutto della buona musica.
I primi a salire in scena, poco dopo le 19.00, sono i Wyvern, un primo nome che ha fatto la sua parte per delineare la storia dell’heavy metal italiano, grazie ad una carriera che ha avuto inizio nel 1985. Nel tempo a sua disposizione, il quintetto mette in mostra le proprie caratteristiche, attraverso una manciata di brani che coniugano con attenzione elementi del power metal tedescoo, dell’epic metal, classico e progressive, guidati da una voce sicura che fa da collante al tutto e da una buona tenuta di palco. Il pubblico non è ancora dei più folti, ma i Wyvern si esibiscono con la professionalità di chi di palchi ne ha visti tanti e non teme niente.
È poi il turno di una frangia più estrema del metal di casa nostra, qui rappresentata dai veronesi Death Mechanism, da sempre alfieri di un thrash metal primordiale, velocissimo e trascinante. Per quanto la proposta musicale sia un po’ più di nicchia rispetto agli altri gruppi presenti alla serata, i Death Mechanism vanno apprezzati, oltre che per le loro capacità esecutive, per la loro coerenza, che li porta da diversi anni a mantenersi fedeli a un principio di stile che va oltre le mode passeggere e li porta ad essere un gruppo solido e credibile.
Senza nulla togliere agli altri gruppi del festival, che si sono tutti esibiti in modo egregio, pensiamo che il culmine di Acciaio Italiano si sia visto con l’esibizione dei Crying Steel. Saranno gli anni in più di esperienza, sarà che i cinque bolognesi stanno facendo poche date dal vivo, e in quelle poche date non solo si spremono fino all’ultima nota, ma hanno sempre più l’aria di divertirsi un mondo, sarà che Stefano Palmonari sembra sempre più a suo agio nell’interpretare i brani vecchi e nuovi del loro repertorio; fatto sta che i Crying Steel stanno vivendo una nuova gioventù artistica, che ha avuto inizio con l’uscita di “The Steel Is Back!” e prosegue anche ora, quando, oltre a “Next Time Don’t Lie”, a “Raptor” e a “Kill Them All”, anche i brani nuovi come “Defender” iniziano ad entrarti nelle orecchie. I brani sono efficaci, l’energia sprigionata è delle migliori, la band è un meccanismo perfettamente oliato e carico fino all’inverosimile. Difficile togliere a loro il primato di migliore concerto della serata.
Non sono comunque da meno i tre gruppi successivi, a cominciare dai Tarchon Fist, esplosivi non solo per i fuochi d’artificio che accompagnano ormai con regolarità la band di Lucio Tattini e compagni, ma anche e soprattutto per la forza di brani che stanno velocemente diventando dei classici, anche al di fuori della cerchia dei fan più fedeli, e per una formazione rinnovata e consolidata, con grandi potenzialità ancora da esprimere. Passando quindi dalle nuove “Play It Loud” e “I Stole a Kiss To The Devil” fino a tornare indietro a “Metal Detector” e “It’s My World”, passando per “Hammer Squad” e “We are The Legion”, i Tarchon Fist emozionano, divertono e rimangono fedeli a se stessi, ottimi esecutori, ottimi conduttori di una battaglia che non accenna a finire.
C’è molta attesa per l’esibizione degli Holy Martyr, gruppo sardo con una ricca storia alle spalle, che da qui a pochissimi giorni presenteranno, tramite Jolly Roger Records, un nuovo disco intitolato “Invincible”, ispirato alle gesta dei samurai giapponesi e alla filmografia dell’immortale Akira Kurosawa. Buona parte del tempo a loro riservato è dunque dedicato a questi epici racconti, al punto che anche la band si presenta sul palco con un abbigliamento che richiama quello dei guerrieri di ispirazione. Non mancano comunque ampi passaggi dedicati alle pubblicazioni precedenti degli Holy Martyr, con riferimento particolare al secondo album, “Hellenic Warrior Spirit”. C’è tempo anche per una piccola apparizione di Giuseppe Cialone, cantante dei Rosae Crucis, che regala un’anteprima di quanto avverrà dopo, duettando con i compagni di etichetta. Se i Crying Steel sono stati i migliori dal punto di vista dell’esecuzione complessiva, gli Holy Martyr sono probabilmente quelli che hanno riscosso il maggiore successo da parte del pubblico, anche considerando che, data l’ora, famigliole e gruppi di curiosi che da sempre affollano (piacevolmente) i festival estivi dei piccoli paesi, se ne sono andati per lasciare spazio alla frangia più accanita di ascoltatori del metal italiano.
Le ombre della sera si sono ampiamente allungate quando l’atmosfera si fa sempre più cupa, le note di un’epica introduzione riecheggiano nell’aria per lasciar spazio ai Rosae Crucis. Anche in questo caso c’è da registrare una grande professionalità per la proposta musicale di questo gruppo, che ha saputo portare avanti con coerenza le proprie idee, sapendosi difendere da attacchi da parte di gente poco aperta mentalmente e mostrando la propria grande chiarezza e coesione. Un abbigliamento adatto al contesto, esecuzioni impeccabili da parte di tutti i suoi componenti e una serie di seguaci lietamente scalmanati, di quelli che conoscono le tue canzoni dalla prima all’ultima nota, fanno da contorno all’esibizione conclusiva, degna chiusura di quella che si spera sia la prima di una lunga serie di edizioni.