Con oltre 20 album di studio e una carriera più che quarantennale alle spalle, gli Accept sono ancora inarrestabili.
Nemmeno una pandemia globale ha infatti impedito alla band di tornare con un nuovo album, dall’emblematico titolo “Too Mean To Die”, a pochi anni di distanza dall’ultimo “The Rise Of Chaos”.
Ne abbiamo parlato con un cordialissimo Wolf Hoffmann, che ci ha svelato cosa c’è da aspettarsi dal futuro di una band che si sente tutt’altro che alla fine dei suoi giorni!
Ciao Wolf, innanzitutto grazie per il tuo tempo! Eccoci a parlare del nuovo album degli Accept, “Too Mean To Die”. In generale, come introdurresti il disco al vostro pubblico?
I nostri fan potranno aspettarsi della nuova musica in pieno stile Accept, ma non ci saranno grandi sorprese; è esattamente come dovrebbe essere, nuovi pezzi con il sound migliore di sempre.
Naturalmente, il 2020 non è stato un anno semplice per nessuno: oltre alla pandemia che tutto il mondo sta vivendo, ci sono state anche delle brutte notizie che hanno colpito personalmente gli Accept [il cantante Mark Tornillo ha perso il figlio, ndr]. Quanto accaduto quest’anno ha influenzato in qualche modo la realizzazione del disco?
Non proprio, o almeno non per quanto riguarda il songwriting.
Abbiamo deciso consapevolmente di tenere tutti gli aspetti legati al Coronavirus fuori dall’album, anche perché alcuni anni fa abbiamo scritto un brano dal titolo “Pandemic” e il nostro ultimo disco si intitolava “The Rise Of Chaos”. Perciò abbiamo deciso di distaccarci da questi temi e il titolo stesso dell’album ha un significato quasi ironico: siamo troppo cattivi per morire, siamo macchine metal che non possono essere uccise.
Naturalmente non è niente di serio, volevamo dare un tocco divertente al tutto.
E in questo periodo abbiamo davvero bisogno di qualcosa di divertente…
Esattamente quello che abbiamo pensato, la gente non ne può più di sentir parlare di questo virus, bastano tutte le notizie che ci bombardano ogni giorno.
Com’è stato il processo di stesura e registrazione del disco? Avete incontrato qualche difficoltà, visti i vari lockdown e limitazioni negli spostamenti?
Direi di no, anche perché il processo di scrittura avviene sempre “in quarantena”, cioè in solitaria, e comunque avevamo già scritto la maggior parte dei pezzi lo scorso autunno, prima dell’emergenza.
Metà disco era stata già anche registrata prima della diffusione del virus, perché abbiamo iniziato a Marzo e fortunatamente avevamo già registrato 6 o 7 pezzi prima del lockdown. Pensavamo di riprendere il tutto in estate, ma per via delle restrizioni legate ai viaggi il nostro produttore non ha potuto raggiungerci negli Stati Uniti e non ha presenziato alle registrazioni. Questo forse è stato il fatto più strano, che il nostro produttore era con noi online, via computer, mentre noi registravamo in studio. A parte questo, tutto si è svolto come di consueto.
Parliamo del brano di apertura, “Zombie Apocalypse”: a quali aspetti della società contemporanea vi siete ispirati per scrivere questo brano? Chi sono gli zombie di cui parlate nel pezzo?
L’idea è stata di Mark, la canzone parla delle persone che camminano per strada con la testa nei loro telefoni cellulari, comportandosi come zombie. Il fulcro del brano è il rapporto delle persone con la tecnologia, che spesso fa loro il lavaggio del cervello e le porta ad essere completamente disconnesse dal resto del mondo. Non c’entrano le serie TV sulla gente morta, insomma!
In “Symphony of Pain” e “Samson and Delilah” avete inserito delle parti strumentali che riprendono delle celebri opere di musica classica: naturalmente non si tratta di una scelta nuova per gli Accept, ma come mai avete deciso di replicarla?
Beh, perché è una cosa che mi piace fare! Sono sempre stato un fan della musica classica e mi è sempre piaciuto combinarla con il metal: ho alle spalle una lunga tradizione di questo tipo come chitarrista e, ovviamente, nella discografia degli Accept.
Avete mai pensato ad un album solo strumentale con l’inserzione di parti classiche?
Io personalmente l’ho già fatto, ma con i miei due dischi da solista, “Classical” e “Headbangers Symphony”, che contengono proprio dei pezzi classici rivisti in chiave metal. È stato molto divertente, un bellissimo progetto!
“The Best Is Yet To Come” è un po’ la ballad di “Too Mean To Die”. Dopo tutti questi anni spesi sul palco e in studio di registrazione, credi che il vostro meglio debba ancora arrivare?
Sì, e credo che ogni artista debba pensarlo. Pensare di aver già raggiunto il meglio significherebbe morire da un punto di vista artistico. Bisogna sempre aspirare a fare meglio, suonare meglio, scrivere meglio, altrimenti dov’è il punto? Devi sempre cercare di metterti alla prova e migliorarti, ogni volta che sali sul palco, ogni volta che scrivi una canzone, un assolo o qualunque cosa.
Quali sono gli obiettivi che ancora volete raggiungere come band e tu, personalmente, come musicista?
Migliorare. Non è un obiettivo scritto ovviamente, ma credo sia importante capire che c’è sempre qualcosa che si può fare meglio, qualcosa che non hai ancora fatto o raggiunto, per ogni band o performer.
È un viaggio costante: puoi anche essere arrivato da qualche parte, ma il viaggio continua.
“Too mean to Die”, lo dicevi anche tu all’inizio di quest’intervista, è un album 100% Accept. Quanto è importante a tuo avviso l’innovazione nella carriera di una band, rispetto ad avere dei marchi di fabbrica subito riconoscibili?
Ogni band deve trovare il suo equilibrio. Gli Accept hanno una carriera lunghissima e molti album alle spalle, è normale che i fan abbiano certe aspettative, ma allo stesso tempo nessuno vuole ripetere sempre le stesse cose. Vuoi introdurre elementi di novità, ma senza perdere i tuoi segni distintivi. Non è semplice, ma per me è sempre importante che ciò che compongo mi piaccia: se mi piace, è un buon segno. Se penso che possa piacere ai fan, ma non a me, allora qualcosa non va.
Come è cambiata la scena metal rispetto a quando tu ti sei affacciato a questo mondo e pensi che tutto quello che è successo quest’anno costringerà il music business a fermarsi e valutare gli scenari futuri?
Non solo la scena metal, ma tutto il mondo della musica è cambiato negli ultimi anni; l’era digitale ha messo in discussione tutte le regole, dal modo in cui registriamo a quello in cui promuoviamo e vendiamo la musica. Non ho idea di cosa succederà, ma finché ci sono persone interessate alla musica, c’è speranza che tutti noi che ci lavoriamo possiamo continuare a farlo.
A volte mi preoccupa il fatto che qualcuno creda che la musica sia lì per essere regalata ed è spaventoso tutto ciò che è successo quest’anno, con il blocco della scena live. Molti musicisti contano sulle esibizioni dal vivo per continuare a fare questo lavoro, perché una performance live non può essere sostituita da nient’altro, è un’esperienza unica. E spero che presto si possa tornare alla normalità, perché altrimenti il mondo dell’intrattenimento come lo conosciamo morirà per sempre.
Ti manca la vita in tour?
Ovviamente sì, siamo musicisti per questo, non perché vogliamo fare spettacoli in streaming, ma perché vogliamo viaggiare, vedere il mondo, incontrare le persone. Vogliamo andare là fuori.
E naturalmente anche la promozione dei dischi è cambiata radicalmente con la situazione attuale. Come state promuovendo il nuovo album?
Direi…interviste! Per la prima volta abbiamo un album e nessun tour programmato, ma speriamo che i fan lo apprezzino lo stesso, lo ascoltino anche con il lockdown e tutto quanto. Ci sarà un tour, che probabilmente sarà all’inizio del 2022 e speriamo ancora di poter suonare in qualche festival estivo nel 2021. Dobbiamo solo aspettare e vedere come si evolveranno le cose, con il vaccino e tutto il resto.
E chiudiamo proprio con un richiamo ai festival o agli show dal vivo: c’è un ricordo o aneddoto particolare che porti con te da qualche esibizione live della tua carriera?
Moltissime! Ricordo sempre le notti più speciali e devo dire che l’esibizione al Wacken con l’orchestra è stata incredibile. Non sono certo se fosse nel 2017 o 2018, comunque due o tre anni fa. Lo ricorderò sempre perché è stato un evento enorme e tutto ha funzionato benissimo: sai, di solito in questi festival ci sono delle circostanze, anche solo atmosferiche, che impediscono di avere lo show che avevi pianificato, ma in quell’occasione tutto ha funzionato benissimo, è stato come un incantesimo che non dimenticherò mai.
