Con “The Visitation” i Magnum, e la “mente” Tony Clarkin in particolare, provano a restare nella scia degli ultimi due ottimi album: l’onirico “Princess Alice And The Broken Arrow” faceva registrare un balzo indietro, fino all’epoca dorata di “On A Storyteller’s Night” e “Into The Valley Of The Moonking” si manteneva su livelli eccellenti, confermando soprattutto il recupero di quello stile che ha reso inconfondibile la band quando non ha cercato di adattarsi alle bizze del mercato discografico. In questo senso, “The Visitation” non si discosta dal trademark dei Magnum, eppure nei primi mezzi si ha l’impressione che gli effetti dell’incantesimo di nuova giovinezza si siano in qualche misura affievoliti.
Il nuovo lavoro parte con incedere cupo ed atmosfere non proprio Magnum-style: una mossa in certa qual misura spiazzante, ma è solo una divagazione temporanea, quasi interlocutoria, perché bastano le prime note di “Doors To Nowhere” per entrare in quel mondo che può avere come unico interprete il piccolo grande Bob Catley, la cui capacità di colorare ogni piccola sfumatura delle melodie disegnate da Clarkin e dalle tastiere di Mark Stanway diventa sempre più profonda. Nel solco della tradizione pure “Wild Angels”, prima di entrare nel vivo dell’album con i ritmi più sostenuti di “Spin Like A Wheel”.
“The Visitation”, si diceva, è un album discontinuo, ma supera alcuni episodi non proprio entusiasmanti e viziati da prolissità con la classe di una band che continua ad avere molto da dire e da insegnare. L’asso nella manica arriva con l’epicità diffusa in “The Last Frontier”, che gioca con delicatezza sulle corde dell’emotività. Questo e l’impegno ecologista sono due degli elementi che caratterizzano i Magnum, una realtà lontana dai cliché del genere, a modo suo difficile da catalogare. In mezzo, l’incedere marziale di “Freedom Day” che cresce fino all’esplosione finale della chitarra di Clarkin è elemento distintivo di un altro grande pezzo. A dirla tutta, è l’intera seconda metà dell’album a riportare i Magnum sui livelli migliori, quelli in cui la band naviga con classe e cuore nel mare della melodia epica, per trovare approdo sicuro nella tranquillità di “Tonight’s The Night”, Catley davvero irraggiungibile nel regalare emozioni di rara intensità.
Un lavoro per metà ordinario e per metà sublime.
Voto recensore 7 |
Etichetta: SPV / Audioglobe Anno: 2011 Tracklist: 01. Black Skies Sito Web: http://www.myspace.com/magnumuk |
In passato questi inglesi Magnum mi hanno fatto sempre l’effetto di un gruppo con spunti interessanti, ma sempre realizzati in modo piuttosto sonnolento, con poca energia. Sarà che sono invecchiato, sarà che sono più bravi loro, stavolta quello stesso tipo di musica, i Magnum la esprimono in maniera più viva e rock. L’album parte con tre brani di livello, secondo canoni class-metal piuttosto corposi e poliedrici, poi dal quarto brano si cambia verso un AoR orecchiabile, più semplice e meno duro. Il risultato? In entrambi i casi colpiscono nel segno, in modo fresco, senza mai annoiare e senza cadere in composizioni troppo scontate. Forse la voce a volte risulta come già sentita, ma si riprende con l’evolversi del brano, riuscendo a dare l’emozione giusta. “BLACK SKIES” apre l’album facendo pensare ad un lavoro LedZeppeliniano, soprattutto nell’arrangiamento e nel riff chitarristico. Invece è l’unico pezzo che nell’album va in questa direzione, ma la forza che emana è imponente e sanguigna. “DOORS TO NOWHERE” si avvicina invece alla tipologia dei Rainbow post Ronnie. E’ un sound magico con un fievole tappeto tastieristico sulle parti soft che si alternano a quelle più dure dove è il riff chitarristico a dare la carica. Al centro, il pianoforte spiana la strada al bell’assolo di chitarra posto appena dopo. “THE VISITATION” non presenta assoli, ma al centro si apre in un breve acquerello sonoro delicato e simil-progressive che, contrapponendosi alla parte cantata più rock, ne fa un brano estremamente piacevole oltre che interessante. “SPIN LIKE A WHEEL” inizia soft con una espressività un po’ stantia, ma si riscatta con l’avvio del ritmo, in un crescendo leggero ma molto frizzante. Il brano scorre senza intoppi fluendo egregiamente, e la parte meno cantata si inerpica magicamente in una atmosfera aerea. La tastiera e la chitarra, poi il piano, introducono su ali delicate “FREEDOM DAY”, che da soft si fa più accesa, ma mai veramente veloce. Tende ad una certa maestosità sebbene appena accennata. I primi due brani di apertura sono i migliori: “Black Skies” segue lo stile dei Led zeppelin senza la voce di Robert Plant, e “Doors to nowhere” quello dei Rainbow senza la chitarra di Blackmore. In effetti si sente la mancanza di virtuosismi chitarristici, ma la voce di Catley è particolare, anche se a volte sembra quella di Gianni Morandi (vedi soprattutto “The last frontier” ); lo è soprattutto in alcuni momenti e passaggi, che suonano caratteristici ed efficaci. Carina “Wild angel” che ricorda un po’ gli anni ’70 degli Styx; dei Boston e degli Angel. Troppa roba in un unico pezzo ? Però appunto troppe influenze in un unico brano, e quindi poca originalità. Il lato Aor di questa band, dal lato compositivo fa impallidire gruppi come i Toto, anche se la tecnica non sembra la medesima.. Non si tratta di un album quadrato e chiuso in schemi precostituiti dove si sono studiati solo riff azzeccati. Si sente invece l’amore per la composizione, davvero qui gli artisti hanno avuto qualcosa da dire. ROBERTO LATINI