Uno dei tanti aspetti che ha caratterizzato il metal degli anni ’90 è la tendenza trasversale, da parte di molte band dedite a generi diversi, a deviare dal percorso musicale intrapreso fino ad allora per sperimentare sonorità diverse. C’è chi appesantisce il proprio sound, chi al contrario lo ammorbidisce, a volte fin troppo. Questi cambiamenti a volte più che inaspettati hanno portato spesso a reazioni molto forti da parte dei fan del genere e anche della stampa specializzata dell’epoca, che non mancò di lanciarsi in vere e proprie campagne denigratorie verso album spesso molto attesi ma che deludevano del tutto le aspettative. Uno degli album sottoposti a questa lapidazione cartacea fu “Load” dei Metallica, che ad esempio la redazione di Metal Shock bocciò quasi all’unanimità. Ora che il decennio è passato da un po’, che abbiamo potuto far sedimentare gli album tanto vituperati e che i bollori adolescenziali magari si sono un po’ assopiti, possiamo riascoltare alcuni di quei lavori con un atteggiamento più accomodante e rivalutarne un certo numero. Il problema comune di molti di quei lavori fu non tanto il fatto di contenere brutti brani, quanto, appunto, di staccarsi da quanto proposto fino ad allora, un crimine, quello del “tradimento”, che per il metal a volte viene pagato molto caro. Ecco quindi le nostre rivalutazioni.
ANATHEMA – Alternative 4
(Peaceville, 1998)
A volte il destino delle opere più belle è quello di essere comprese anni dopo la loro realizzazione. Quando “Alternative 4” (titolo di per sè assai programmatico) degli Anathema uscì nel 1998, la ricezione da parte di un buon numero di addetti ai lavori fu piuttosto tiepida, per non dire critica. “Alternative 4” era colpevole soltanto di non essere un disco “metal”, un capo di imputazione aggravato da un predecessore pesante come “Eternity”, capolavoro di doom/goth atmosferico e considerato apice compositivo degli inglesi che peraltro già evidenziava l’utilizzo di alcune soluzioni trasversali. “Alternative 4” invece osa ancora di più e spiana la strada al malinconico alternative rock dal sapore pinkfloydiano ma assolutamente personale su cui i fratelli Cavanagh costruirono la seconda vita artistica della loro creatura. Criticato perchè “moscio”, troppo melodico o semplicemente diverso, “Alternative 4” è in realtà uno scrigno di gemme cupe, pieno di introspezione e intima resa. Episodi come la magnifica “Fragile Dreams”, la disperata “Lost Control” e “Regret” sono oggi tra le canzoni più amate dai fan e nelle liriche affrontano il male di vivere con adulta consapevolezza. (Andrea Sacchi)
CARCASS – Swansong 
(Toy’s Factory, 1996)
I Carcass reduci dal capolavoro “Heartwork” potevano permettersi di tutto, anche di spiazzare completamente i propri fan con un album death’n’roll, immediato e facilmente assimilabile come mai nella storia della band. Fu così che l’uscita del controverso “Swansong” permise al gruppo inglese di raggiungere un pubblico più vasto, però, manco a dirlo, scontentò non poco i puristi del death metal e i più assidui follower del combo di Liverpool. Al di là di quale posizione si prenda, il disco resta una lampante dimostrazione di come un ensemble d’alto livello come i Carcass sia perfettamente in grado di muoversi al di fuori del proprio abituale recinto, scrivendo grandi canzoni che nulla hanno da invidiare a quelle di gruppi solitamente avvezzi a questo tipo di sonorità. La geniale fin dal titolo “Keep on Rotting in the Free World” è un rock scatenato e ruvido, “Tomorrow Belongs To Nobody” un pezzo di puro heavy metal assolutamente irresistibile mentre “Black Star” beneficia di un riff e di un incedere invincibili; anche con gli altri brani il ritmo e la qualità non accennano poi a diminuire. Comunque la si pensi, “Swansong” costituisce un esperimento coraggioso e un episodio originale nella discografia della band inglese (Matteo Roversi).
DIO – Strange Highways
(Vertigo Records 1993)
Gli anni novanta sono stati per molte delle band di maggior grido del decennio precedente un specie di mini-calvario. Crisi di vendite e tante, forse troppe, critiche hanno colpito anche un idolo come Ronnie James Dio. Nonostante questo i dischi prodotti non sono stati proprio così scadenti, soprattutto questo “Strange Highways” dimostra, anche dopo tanti anni dalla sua pubblicazione, di possedere una sua intensità e quel pizzico di modernità che forse veniva anche richiesto dalle case discografiche, ma che usato con intelligenza non portava via nulla della personalità di un artista con un suo timbro riconoscibile. Nascono su queste premesse canzoni corpose, dalle ritmiche caricate e compresse, come “Jesus, Mary & The Holy Ghost” o “Evilution”. Se volete il punto i riferimento pare essere proprio“Dehumanizer”, album di reunion con i Black Sabbath, pubblicato l’anno prima. Questo disco ne ricalca lo stile pesante e oscuro, con una title track che con i suoi quasi sette minuti affascina e avvolge come pochi altri brani della discografia dei Dio. Da queste tracce traspare una rabbia inusuale, con la quasi totale eliminazione del lato più epic, a favore di un sound aggressivo ed heavy come non mai in precedenza. Un episodio di tutto rispetto, degno di essere ricordato tra i lavori positivi della carriera del mitico Ronnie (Riccardo Manazza).

DREAM THEATER – Falling Into Infinity
(EastWest 1997)
Dopo l’esplosione di entusiasmo che aveva avvolto “Images And Words” e “Awake” e gli omaggi al passato di “A Change Of Seasons“, i fan dei Dream Theater rimangono spiazzati da “Falling Into Infinity“, un album prodotto insieme al noto Kevin Shirley e frutto di un periodo tormentato per la band. Le richieste dell’etichetta discografica sono di produrre brani più radiofonici, più brevi e in generale più catchy, mentre lo stesso Shirley interviene operando drastici tagli alla struttura dell’album e di certi pezzi. I fan forse avvertono questo senso di precarietà, o comunque percepiscono la grande diversità tra questo lavoro e i precedenti, e lo accolgono in modo abbastanza tiepido. Anche negli anni a venire, a parte naturalmente il periodo immediatamente successivo, gli stessi Dream Theater lasceranno quasi del tutto da parte i brani di “Falling Into Infinity” e ne ripescano fuori solo alcuni estratti di tanto in tanto (cci fu ad esempio il mix tra “New Millennium” e “Caught In A Web“, che diventò appunto “Caught In A New Millennium”, o un estratto da “Trial of Tears” nel tour in cui i Dream suonavano tutti gli ultimi brani dei loro album). Detto tutto questo, c’è in effetti un consistente alleggerimento in brani come “Take Away My Pain“, nella delicatissima “Anna Lee” o nella prima parte di “Peruvian Skies“, ma a fare da contraltare ci sono comunque brani più pesanti, dal ritmo ben più rapido, come “Just Let Me Breathe” (con il famoso gioco di parole contro MTV nel testo) o “Burning My Soul“. A distanza di quasi vent’anni, ai Dream Theater si può scusare questo momento di “debolezza” o di crisi, un momento che comunque è servito a spingere la band verso una carriera lunga e produttiva (Anna Minguzzi).
E
XTREME – Waiting For The Punchline
(A&M Records, 1995)
“Waiting For The Punchline” risente fondamentalmente di tre problemi: primo, è uscito dopo “Pornograffiti” e “3 Sides To Every Story“, da sempre ritenuti gli album migliori nella discografia degli Extreme, ai quali è sempre, per forza di cose, paragonato. Secondo, non ha al suo interno grandi hit come successe, ad esempio per “More Than Words“; terzo, l’album esce in un periodo storico in cui l’hard rock e tutti i suoi sottogeneri sono considerati come un qualcosa di totalmente inutile e sorpassato. Certo, la band tenta di uniformarsi al periodo che la musica sta vivendo, e azzarda un avvicinamento verso sonorità più moderne e una produzione più scarna e minimalista rispetto alle precedenti. Anche dal punto di vista dei testi, la band tenta un approccio più “impegnato” rispetto ai lavori precedenti per cercare un avvicinamento a tematiche sociali; tutti tentativi che all’epoca non furono capiti dai fan, che interpretarono l’album come l’inizio della fine per Gary Cherone e compagni. A distanza di anni però l’album suona ancora molto attuale, dinamico e intelligente, con una visione forse più cinica e disillusa sul mondo rispetto a quella prospettata dalla band nei lavori precedenti (Anna Minguzzi).
HELLOWEEN – Chameleon
(EMI 1993)
Se c’è un disco che negli anni ’90 fu odiato visceralmente, ma col senno di poi non pochi hanno rivalutato come un eclettico e geniale capolavoro, quello è “Chameleon” degli Helloween. Potevano ai tempi i più veraci fan del power metal, da sempre abbastanza ortodossi e devoti a certi stilemi, permettere che i padrini del loro genere favorito abbandonassero del tutto la propria proposta per lanciarsi in qualcosa di totalmente diverso ed estemporaneo? Il quinto album delle zucche di Amburgo è infatti vivida espressione della fantasia al potere: elementi pop, jazz, swing, prog, hard rock e country si fondono per dar vita a una miscela unica, un’opera fresca e originalissima come poche. Ogni brano del disco andrebbe descritto a parte, ma nello spazio che abbiamo qui a disposizione ci limitiamo a citare gli episodi più sorprendenti: l’ariosa “I Don’t Wanna Cry No More”, la divertentissima “Crazy Cat”, le lunghe, tese e complesse “Giants”, “Revolution Now”, “Music” e “I Believe” e la scatenata “When The Sinner”, unica nella sua improvvisazione di sax conclusiva, sono tutti pezzi di qualità sopraffina. C’è comunque spazio anche per canzoni più classiche, come la melodica e solare opener “First Time” o la dolcissima ballad “Windmill”. Come recita il suo stesso titolo e ben rende visibile la sua copertina, “Chameleon” è un lavoro davvero vario e camaleontico, un tipo di esperimento che molte più band dovrebbero avere il coraggio di realizzare (Matteo Roversi).
IRON MAIDEN – The X Factor
(EMI, 1995)
Un titolo come “The X Factor” già la dice lunga sul fatto che gli Iron Maiden stessero pensando a un qualche cambiamento dopo lo split con Bruce Dickinson avvenuto nel 1993. Il sostituto di Bruce si chiama Blaze Bailey, un pacioccone all’epoca trentaduenne e frontman degli allora semi-sconosciuti Wolfsbane. Il nostro è dotato di un timbro potente e catarroso, certo ben più sgraziato di Bruce ma a modo suo parecchio efficace. Questo album, benchè criticato da più parti, non fu comunque un flop e di fatto puntava su una diversificazione del sound della Vergine Di Ferro, che per l’occasione compose dei brani potenti e dal feeling decisamente “dark”, per quanto il trademark restasse riconoscibile. L’epica suite “The Sign Of The Cross” (ispirata a “Il Nome Della Rosa” di Umberto Eco), l’efficacissimo singolo “Man On The Edge” e ancora “The Edge Of Darkness”, restano buoni esempi di musica maideniana. E ci sentiamo di dire che il buon Blaze fece la sua “porca figura” in questo disco che doveva essere di rodaggio, ma finisce per diventare uno dei più interessanti della non certo esaltante discografia degli Iron Maiden negli anni’90. (Andrea Sacchi)
JUDAS PRIEST – Jugulator
(Zero Corporation, 1997)
Cambio di voce (e che voce), cambio di stile e un disco precedente che si chiama “Painkiller”. “Jugulator” è insomma uscito avendo già sopra la testa la spada di Damocle del flop annunciato, ed infatti in molti tra i true metallers gridarono alla schifezza, accusando i Judas di tradimento, di “panterizzazione” e di lavarsi troppo le ascelle (che il metal ha da puzzà, lo sanno tutti). Una reazione davvero eccessiva se si va invece ad ascoltare il disco, che, se propone una sterzata evidente dal punto dei vista dei suoni, che sono in effetti molto più meccanici e compressi, come usa in quegli anni, non tradisce certo le aspettative né se si parla di qualità delle composizioni, né, tanto meno, nella resa delle parti vocali, affidate ad un Ripper Owens che se la cava alla grande per tutta la durata. La title track è una mazzata potentissima di metallo incandescente, la groovy “Burn In Hell” ha un crescendo pauroso, “Dead Meat” è uno dei brani più rabbiosi dell’intera carriera del gruppo e così via fino alla conclusiva “Cathedral Spires”, oscura ed epica come pochi altri pezzi targati Judas Priest. Da rivedere sicuramente la produzione, che oggi suona ancora più finta di allora, ma se il prossimo disco dei Judas avesse dieci song della qualità di quelle qui raccolte, ci sarebbe ben poco di cui lamentarsi (Riccardo Manazza).
KREATOR – Endorama
(Drakkar Entertainment, 1999)
I Kreator, maestri del thrash metal tedesco, osano pubblicare un disco “gotico”? “Maledetti loro, alla gogna!” Gridarono all’unisono i metallari duri e puri dell’epoca. Eppure “Endorama” (logo diverso, copertina diversa, sound diverso) è un album che si riscopre con piacere, testimonianza dal coraggio che dimostrò all’epoca Mille Petrozza, il quale volle far confluire in quel disco un percorso che stava portando i Kreator verso delle sonorità sempre più “noir” e ragionate. Avvisaglie di cambiamento già ventilate (senza nemmeno nasconderle troppo) dal precedente “Outcast”, che in “Endorama” trovano la successiva evoluzione. Per quanto non si possa propriamente parlare di gothic metal, perchè il sound di scuola Kreator comunque si sente ancora, “Endorama” è un album più tranquillo e introspettivo, fatto di episodi plumbei con numerose soluzioni melodiche dal tocco sintetico e industriale che fecero storcere il naso e gridare alla scandalo la vecchia guardia dei fan. “Endorama” non è però un disco accattivante o troppo luminoso, si interroga sui malesseri della vita con quella consapevolezza adulta che apparteneva al Mille dell’epoca. La titletrack, duettata dal nostro e da Tilo Wolff dei Lacrimosa è graffiante e dai toni msteriosi, molto buone anche “Everlasting Flame” e “Willing Spirit”. In seguito, giunti a dover decidere se diventare una gothic rock band o tornare sui propri passi, i Kreator optarono per la seconda ipotesi, ma pur restando un capitolo isolato, “Endorama” fu un episodio della loro vasta discografia da non sottovalutare.(Andrea Sacchi)
METALLICA – Load 
(Elektra Records, 1996)
MOONSPELL – The Butterfly Effect
(Century Media, 1999)
Quarto capitolo del percorso evolutivo dei lusitani, “The Butterfly Effect” è l’ideale continuatore di quel “Sin/Pecado” uscito soltanto l’anno precedente, un album che già flirtava molto con le sonorità elettroniche e industrial odiate dai puristi. Un disco come “The Butterfly Effect”, che cita uno dei principi cardini della teoria del caos (presente quando una farfalla sbatte le ali e da poche molecole d’aria arriva a generare un uragano?), si spinge ancora più in là e gioca molto di più sui suoni elettronici, innestandoli nella matrice goth metal della band. Ovviamente, chi aveva apprezzato capolavori come“Wolfheart” e “Irreligious”, decisamente più orientati verso il black/gothic, ebbe parecchio da ridire. In realtà, pur non rappresentando uno dei momenti più alti della discografia dei portoghesi, “The Butterfly Effect” è un disco meno immediato e certo più coraggioso di “Sin/Pecado”, un album che non fa mancare momenti di assoluta energia (“Soulsick”) dove la voce pulita si alterna al growl, ad altri più disincantati e con numerose soluzioni sintetiche (“Can’t Bee”), ma sempre crepuscolari e ricercati. Certo non mancano dei tempi morti (crediamo che nemmeno il fan più sfegatato sia riuscito ad ascoltare i quasi tredici minuti di “K (O Mal De Cristo)”, ma nel complesso “The Butterfly Effect” è un disco funzionale e piacevole. Dal successivo“Darkness And Hope” (2001), la band tornò sui propri passi con fortune alterne. (Andrea Sacchi)
MY DYING BRIDE – 34,788%…Complete
(Peaceville Records, 1998)
I Signori del Doom più cupo, sfornano un album influenzato dal rock elettronico. Correva l’anno 1998 e “34,788%…Complete”, titolo di per sé significativo che lascia intuire come le cose stessero cambiando, vede gli inglesi cimentarsi con sonorità inedite, sebbene inserite nel contesto plumbeo caro ad Aaron Stainthorpe. Ciò che più colpisce sono i testi, che trasferiscono il male di vivere in un contesto urbano di luci al neon traballanti dove si intrecciano le vite dei protagonisti, i loro problemi, le loro pulsioni. Il brano iniziale “The Whore, The Cook And The Mother”, pur di durata prossima ai dodici minuti è straordinariamente arioso ed orecchiabile, con la voce del nostro spesso impostata su toni puliti e con un generale appeal gradevole garantito dai suoni elettronici ben diluiti. Formula che si ripete molto bene per tutta la durata del disco, che trova il suo momento più particolare in“Heroin Chic”, vero pezzo trip-hop del tutto inedito per gli inglesi. Un disco all’epoca parecchio criticato ma in realtà onesto, coraggioso e con molti buoni brani, peccato sia rimasto un episodio isolato nella discografia della Sposa Morente. (Andrea Sacchi)
PARADISE LOST – One Second
(Music For Nations, 1997)
A due anni di distanza da “Draconian Times”, episodio riconosciuto tra le più alte manifestazioni del gothic metal, i Paradise Lost giocarono la carta delle sonorità più accessibili e tornarono sul mercato discografico con il controverso “One Second”. All’epoca quell’album fu trattato malissimo da molte riviste di settore, vuoi perchè più fruibile e ruffiano del suo predecessore, vuoi perchè il singolo “Say Just Words” ottenne i suoi bei passaggi su MTV, mentre i nostri si ripresentavano ai fan con i capelli corti e la faccia pulita. Insomma, dov’era finito il metallo? Eppure, a giudizio di chi scrive, “One Second” non era altro che la naturale evoluzione di un disco oscuro ma ricco di melodie fruibili come fu “Draconian Times”, semplicemente i Paradise Lost lo elaborarono nell’ottica di un gothic rock più moderno, accattivante (ma non troppo facilone) e ricco di influenze elettroniche. Quanto bastava per far gridare al tradimento una buona parte dei loro seguaci, ma anche guadagnarsi una nuova base di fan. Noi pensiamo che “One Second” fu comunque una tappa necessaria del percorso evolutivo circolare del combo di Halifax, che diede il via a una fase della carriera rivolta a sonorità più accessibili, ma sempre molto malinconiche. Davvero piacevoli la titletrack, “Soul Courageous” e naturalmente il citato singolo “Say Just Words”, che se ancora oggi viene usato da Nick Holmes e soci per congedarsi dal pubblico durante i live shows, un motivo ci sarà. Voi che dite? (Andrea Sacchi)
QUEENSRYCHE – Promised Land 
(EMI, 1994)
Dopo il successo clamoroso di “Operation: Mindcrime” e del pur diverso e raffinato “Empire” i Queensrÿche alzarono ancora l’asticella con “Promised Land”, non incontrando però subito il riscontro di critica che si aspettavano; rispose invece molto bene il pubblico quindi la rivalutazione di quest’opera è solo relativa visto che comunque si piazzò bene nelle varie chart di vent’anni orsono. La produzione pulitissima sempre affidata a “Jimbo” Burton e l’artwork totemico di Hugh Syme confezionavano una serie di tracce equamente bilanciate tra il classico Queensrÿche sound di quegli anni ed altre più sperimentali che ancora oggi non coinvolgono in toto nonostante la perizia esecutiva; a fianco quindi di azzardi come “I Am I”, “Promised Land” e “Dis Con Nec Ted” ci sentiamo più confortevolmente “a casa” all’ascolto di “Damaged”, “Lady Jane” e l’highlight “One More Time” coi loro saliscendi emozionali, la stentorea voce di Geoff Tate come guida e l’apporto imprescindibile di Chris DeGarmo come autore (e anche pianista). Che lo vogliate rivalutare o già l’amiate “Promised Land” è un album da avere (forse l’ultimo lavoro “inattaccabile” della band di Seattle) per il suo carattere “progressivo” ma raffinato e non paragonabile ad un determinato genere (soprattutto in quel periodo) (Alberto Capettini).
WARRANT – Ultraphobic
(Sanctuary Records, 1995)
Sono una band dalla qualità straordinaria i Warrant, ma non sono mai riusciti a staccarsi di dosso la nomea creata con un debutto leggerino e orientato al pop-metal come “Dirty Rotten Filthy…”. Non di meno chi ha avuto modo di vederli dal vivo, ad esempio al Monsters Of Rock 1992 ricorda perfettamente il tiro e l’aggressività che il gruppo seppe metterci. E anche la loro discografia anni novanta, con album di volta in volta sempre diversi, e sempre ottimi, mette un punto esclamativo sulle doti di una formazione che merita forse una rivalutazione globale, ma che in particolare necessita di essere riabilitata per questo, odiatissimo, “Ultraphobic”. Solo che ha vissuto davvero male la svolta musicale degli anni novanta può infatti considerare un flop un disco di hard rock moderno, maturo e zeppo di canzoni azzeccatissime come questo. Consci di non essere più nella scena di solo pochi anni prima i Warrant si lasciano infatti alle spalle le sonorità leccate degli anni ottanta, abbassano le accordature e scrivono canzoni che sanno contemporaneamente più di rock anni novanta, ma con tanto del classic hard rock dei seventies, senza però rinunciare ad un loro marchio interpretativo, che si traduce in cori più melodici e in linee vocali sempre ben seguite dal compianto Jani Lane. Un ottimo album, solo poco capito e ingiustamente criticato (Riccardo Manazza).
Chameleon degli Helloween un eclettico e geniale capolavoro?!
Che affermazione coraggiosa!
“promised land” non è solo uno dei miei preferiti dei Queensryche. è uno degli album che prediligo in assoluto!
Mi unisco a gran voce. Togliere dalla lista promised land che non è da rivalutare è stato valutato a suo tempo e rimane un capolavoro.
(in reply to Giorgio Caccia)salverei iron (x factor è un grande album!!), paradise lost anathema moonspell kreator e my dying bride, gli altri nel cestino…
Sicuramente X Factor non è un capolavoro… mi spieghi “non è non certo esaltante discografia degli Iron Maiden” cosa vuoi dire?
Comunque un “NI” per Maiden, Judas, Dio e Dreams… tutto il resto nel fuoco
Significa che negli anni ’90 (dal mio punto di vista!) gli Iron Maiden non hanno confezionato chissà quali grandi dischi. Si salvano “Fear Of The Dark” che resta un buon album e appunto “The X Factor”, per lo meno diverso rispetto ai loro standard
(in reply to Ulf)Lascerei nel cestino quasi la totalità dei sopracitati album e, addirittura, per alcuni, di cui ho pure la copia originale (“Ultraphobic”), lancerei l antivirus e poi la formattazione del disco rigido !!
Esagerazioni a parte, ricordo la trepida attesa per comprare il cd dei Warrant; dopo un paio di ascolti mi resi conto di aver buttato al vento 15.000 lire (le buona vecchie lire!) Un flop colossale. Deludente al 100%!Magari ora, leggendo questo articolo, proverò a togliere la polvere che ha accumulato in 21 anni, ma non mi aspetto che esca una nuova di “torta alle ciliegie”!!!!
Se devo scegliere, tra quelli sentiti, salvo “Promised Land” & “The X factor”.
Avrei messo nella classifica anche “Strange and Beautiful” dei Crimson Glory, secondo me un album da rivalutare assolutamente
A mio parere “load” resta una cagata pazzesca… tuttora “chameleon”nella sua diversità credo sia stato molto sottovalutato…aggiungerei anche l’omonimo dei motley(gran disco)..il resto ci puo stare…
Promised Land odiato? Are you fucking kiddin’ me? 😀
Siamo seri, su…
Anche One Second e Alternative 4 chiedono abbastanza vendetta. Su Endorama invece ci avete beccato in pieno. Ancora mi stupisco di come i loro fans abbiano cagato in testa ad un album di tale portata, per farli ritornare a fare da cover band degli Slayer, ed estromettere un genio assoluto del calibro di Tommy Vetterli…bah, metallari strana gente 😀
Pur non essendo certo il mio genere preferito un disco dell epoca da rivalutare è native tongue dei Poison. È fatto benissimo, lontano dal glam anni 80 ma non se l’è cagato nessuno proprio perché era uscito nei primi 90..