Diventato un po’ antipatico, tronfio e pieno di sè ai limiti del caricaturale, Yngwie Malmsteen ha dominato indiscusso gli anni ’80 grazie non tanto alla sua personalità, tenuta ancora un po’ a freno forse dalla giovane età, quanto dal suo padroneggiare in modo straordinario la chitarra e la sua capacità di riprendere gli insegnamenti del maestro Blackmore e di renderli a modo suo, in un periodo in cui il genere neoclassico, con tutti i suoi derivati e i suoi molteplici figli, vive un periodo di grande splendore. “Trilogy“, di cui ricorre oggi il trentennale dalla pubblicazione su Polydor Records, è il terzo disco solista del chitarrista svedese trapiantato negli Stati Uniti, è ancora oggi uno dei più noti ed è il primo album con alla voce Mark Boals. I buoni dati di vendita e la capacità di abbinare brani per la maggior parte brevi e quasi radiofonici ai virtuosismi sulle sei corde che ormai conosciamo bene, lo rendono uno dei lavori più orecchiabili della discografia del guitar hero, tant’è che alcuni brani sono ancora oggi fra i più noti dell’ormai ampio repertorio del chitarrista svedese.

YOU DON’T REMEBER, I’LL NEVER FORGET
Il disco si apre con un brano che miscela alla perfezione armonizzazioni tastiereristiche, tipiche del sound scandinavo degli anni ottanta, e un roccioso riff di chitarra. Una sovrapposizione tra melodia e hard rock che colpisce da subito nel segno, anche grazie alla splendida estensione e alle doti drammatiche del nuovo singer Mark Boals. Il tono malinconico della linea vocale, così come il testo, scritto da un amante disperato per l’abbandono e l’indifferenza della persona desiderata, sono tipici di Malmsteen. In questo caso l’assolo è quanto di più neo-classico si possa immaginare, eseguito con una fluidità e una velocità che solo il buon Yngwie sapeva adoperare con intatta espressività. Un brano top della discografia malmsteeniana (Riccardo Manazza).
LIAR
Uno dei problemi contro cui Malmsteen dovrà lottare nel corso della sua carriera è quello dei suoi imitatori. “Liar” è l’invettiva feroce di un giovane musicista (ricordiamoci che Malmsteen all’epoca ha 23 anni) che si vede defraudato del suo lavoro e che sintetizza tutto nel verso “you found it easier to steal than create” e nel ritornello in cui Mark Boals ripete allo spasmo l’insulto “bugiardo”. Un ritmo veloce e un intermezzo strumentale con richiami evidenti alla musica classica sono il pezzo forte di questo brano, spesso proposto dal vivo con un arrangiamento vocale diverso e un cantato un tono più alto, breve e fulmineo come la parola che gli dà il titolo (Anna Minguzzi).
QUEEN IN LOVE
Quello di Trilogy è un Yngwie Malmsteen a cavallo tra l’intransigenza della primissima fase di carriera e le progressive aperture melodiche e tendenzialmente più hard rock che troveranno spazio da Odyssey in poi. Queen In Love dipinge bene questo momento di passaggio, da non considerarsi in modo negativo, anzi. Il brano è essenziale e apre con le tastiere di Jens Johansson in bella mostra, a sostenere il brano. Malmsteen entra in scena prepotentemente solo nella parte solista, mentre è memorabile e drammatica nel suo romanticismo la performance di Mark Boals che mostra il suo lato più A.O.R.. Un pezzo che non a caso verrà cantato anche da Turner nello storico Live In Leningrad. (Tommaso Dainese)
CRYING
Presente come b-side del singolo “You Don’t Remember, I’ll Never Forget“, “Crying” probabilmente non è uno dei pezzi strumentali più celebri di Yngwie Malmsteen. Contrariamente a quanto succederà sempre con maggiore veemenza nella successiva produzione, questo brano vive di momenti delicati, in cui la chitarra dipinge una trama atmosferica e sognante, senza la necessità di virtuosismi estremi, limite che affliggerà appunto molti dei brani strumentali della discografia più recente. La potenza elettrica esplode solo da metà brano in poi, disegnando un assolo non tra i più memorabili di sempre, ma che inserito nella dinamica di “Trilogy” funziona alla grande. (Tommaso Dainese)
FURY
Una di quelle canzoni che sono definibili proto-power metal, caratterizzate da una base ritmica incalzante e diretta, da una chitarra incisiva e da linee vocali melodiche ed incastrare con precisione sulla direttrice ritmica. Chiaramente le origini stanno nelle tipiche cavalcate Purple-Rainbow dell’hard rock classico, ma la personalità del grande Yngwie trasporta il tutto un passo avanti, aprendo le porte appunto a quello che poi sarebbe stato il melodic-power degli anni novanta. Le tastiere fanno da tappeto immacolato all’incedere nerboruto delle ritmica (compreso un riffing dinamico, incessante e corposo) che ci porta dritti alla parte solista. In questo caso il nostro privilegia un sound tagliente e super-metallico, perfetto per il contesto musicale e per impersonare la “Furia” (qui descritta come un’entità vera e propria) che possiede il protagonista della canzone fino all’inevitabile tragedia (Riccardo Manazza).
FIRE
Una canzone che “brucia” – letteralmente – tra le corde vocali di Mark Boals ed il riffing serrato di Yngwie J. 4 minuti che profumano di Svezia, che suonano stelle e strisce e che esplodono in un solo degno del miglior J. Sebastian Bach. Per quanto possa esser semplice da “pensare”, una canzone del genere è ancora anni luce avanti alle migliaia di gruppi che da questa manciata di secondi hanno preso spunto (un nome su tutti, almeno per questa canzone, Royal Hunt). Una canzone così farebbe la felicità di ogni band a caccia di gloria. Peccato che Yngwie J. l’abbia già composta (Saverio Spadavecchia).
MAGIC MIRROR
Con questo pezzo Yngwie Malmsteen tira un po’ il freno e si dedica a un ritmo un po’ più lento rispetto a quanto gli è abituale e a un testo un pochino più introspettivo, nuovamente a metà fra sogno e fantasia. Lo specchio magico del titolo è un invito a non cercare troppo lontano la forza per superare i problemi e a guardarsi dentro, come se si fosse di fronte a uno specchio magico. Apparentemente più riposante, in realtà il brano ha una sua complessità, dovuta anche a intrecci vocali tra voce e cori e a un continuo sottofondo operato dalla chitarra che non lascia mai un attimo di respiro all’ascoltatore (Anna Minguzzi).
DARK AGES
Si tratta di un brano figlio diretto del lato più epico e oscuro dello stile malmsteeniano. Un volto che prende chiaramente spunto dai Rainbow del periodo Dio (una delle influenze più evidenti del nostro), ma avvicinandolo alle atmosfere sabbathiane e accentuando, come da norma, il gusto neoclassico. Di fatto la canzone si basa esclusivamente su di un riff rallentato, ripetuto all’esasperazione e percorso da tastiere dal timbro dark di Jens Johansson e dai vocalizzi declamatori di un sempre ottimo Mark Boals. Non sorprende poi che l’assolo arrivi puntuale a spezzare l’atmosfera, sferzando con tagliente aggressività (ma sempre con raffinatezza) la relativa staticità dell’insieme. Il testo, molto semplice, parla di un periodo buio in cui prevalgono sopraffazione e paura. Riferimenti precisi non ce ne sono, ma di sicuro il mood del brano rende alla perfezione l’ambientazione (Riccardo Manazza).
TRILOGY SUITE op. 5
Il manifesto dell’Yngwie-pensiero. Orgogliosa ed eccessiva. Una canzone dalle molte facce, dove spicca quella acustica, dai fraseggi suggestivi e orgogliosamente classici. Una canzone nobile, che gioca con le anime del nostro diventando uno dei limiti dei moderni guitar-heroes che per anni rincorreranno le scale neoclassiche di Malmsteen fallendo miseramente il confronto. Impossibile far meglio dello svedese. Una canzone che chiude in maniera stellare uno degli album (forse IL) più amati del nostro svedese preferito. Da sottolineare anche la dedica al primo ministro svedese Olaf Palme, assassinato pochi mesi prima dell’uscita del disco (Saverio Spadavecchia).